Gli istanti avanti il match. Per cortesia della Federazione Pugilistica Italiana

Gli istanti avanti il match. Per cortesia della Federazione Pugilistica Italiana

Sabbato ar colosseo di Marco ImpigliaMarco Impiglia ci racconta la storia Di Leone Jacovacci per la sua rubrica “Il SaBBato ar Colosseo”, il pugile di colore preso in prestito da Mussolini

 

La Casa del Cinema di Roma Circa nove mesi fa ho visto, alla Casa del Cinema a Villa Borghese, un docu-film tratto da un libro che ho da molti anni ritto in piedi nella mia biblioteca: “Nero di Roma”. La storia, raccontata dal sociologo Mauro Valeri, di Leone Jacovacci, il meticcio congolese “preso a prestito” per qualche stagione dal fascismo.

Acciuffato come si fa con un burattino di legno, al solo scopo di dare brillantezza alla sinfonia della “eroica nazione sportiva” che Benito Mussolini aveva iniziato a suonare su tutte le corde: dal calcio al ciclismo, dall’automobilismo al motociclismo, dalla “volata” alla boxe.

Un film realizzato nel 2016 dal regista Tony Saccucci. Con la produzione che, ad un certo punto, si era premurata di contattarmi, per via che stavo pubblicando un volumetto sul pugilato. Avevo loro caldamente raccomandato di non accettare ad occhi chiusi la versione del libro, che aveva fatto di Jacovacci una vittima di un inesistente (nel 1928) “razzismo” fascista.

Il piccolo Leone visse l’infanzia in una zona del Congo Belga che oggi sta in Angola
Il piccolo Leone visse l’infanzia in una zona del Congo Belga.Dal volume “Nero di Roma”

Quella piacevole sera di luglio del 2020, presi dunque posto in una fila intermedia per godermi, con una certa curiosità, il lavoro di Saccucci sul grande schermo all’aperto. Bello seduto nella quiete screziata dalle cicale; solo un attimo disturbato da un litigio sul “distanziamento” tra una vecchietta e un tizio che non credeva affatto al coronavirus.

Non se conoscete qualcosa della storia, bella e triste allo stesso tempo, di Jacovacci. Nel 2017, allorché il film uscì nelle sale rispolverandola, sul web la si presentò così:

“Il pugile del Duce” vuole raccontare la storia incredibile di Leone Jacovacci: un pugile tecnicamente perfetto, agile, tenace, intelligente, potente. Parlava perfettamente tre lingue. Era italiano e forse anche fascista. Sicuramente non antifascista.

Ma per gli italiani il colore della sua pelle faceva la differenza. Anche se aveva tutte le carte in regola per entrare nella storia del pugilato.

Il Fascismo lo ha cancellato dalla storia italiana, come testimoniato dal filmato dell’Istituto Luce dell’incontro del 24 giugno del 1928 manomesso e tagliato sulla parte finale dove il pugile di colore venne incoronato campione d’Europa.

Un fotogramma dalla pellicola Luce, visionabile sul web

Il film racconta parallelamente il motivo per cui Mauro Valeri, sposato con una etiope, ha riscoperto Leone Jacovacci. Oltre a essere una intensa storia sportiva, il documentario riscopre una storia dimenticata che pochi conoscono e che potrebbe ridare a Jacovacci il posto che merita nello sport italiano e che permette a tutti noi una riflessione sul nostro presente, venato di tracce di un razzismo strisciante.

Mi avvidi immediatamente che l’opera di Saccucci andava giù liscia che era un piacere: non serviva il Momendol. (Me l’ero portata appresso, la pastiglia: le manipolazioni storiografiche mi fanno venire il mal di testa). Le immagini dell’Istituto Luce, accoppiate a quelle del suo alter ego britannico, il Pathè, produssero il loro effettaccio. Solo un “professionista” della storia dello sport, per l’appunto uno come me, avrebbe potuto rilevare le distorsioni e le contraddizioni all’interno del recupero dell’obliata vicenda: la capanna dello zio Tom in versione fascista.

Il film non è una vera biografia, forse ci dice più di Valeri che di Jacovacci. Tutto ruota sul match Jacovacci-Bosisio del 1928, in palio il titolo continentale dei medi. Sfida all’epoca reclamizzatissima, e poi deludentissima sul piano tecnico: si vide della bruttissima boxe.

Il commento ironico del Guerin Sportivo, che all’epoca stava a Torino, sulla sfida Roma-Milano della boxe
Il commento ironico del Guerin Sportivo, che all’epoca stava a Torino, sulla sfida Roma-Milano della boxe

Sfida con un’alta borsa in palio, ospitata allo Stadio del Partito Nazionale Fascista secondo i voleri dell’allora numero due della politica, il gerarca Augusto Turati, che infatti si intravede in alcune sequenze. Il Luce girò un filmato di un’ora, del quale sono rimasti una cinquantina di minuti. Valeri, nei sei anni di ricerche svolte, si era accorto, visionando il documento a Cinecittà, che mancavano gli ultimi round, gli unici in cui Jacovacci, col suo modo sbandante e naif di interpretare la “nobile arte” (mulinava le braccia come gli avversari di Don Chisciotte), era venuto a capo della ragnatela tattica del più stiloso Mario Bosisio, l’antipatico biondino milanese.

Il commento ironico del Guerin Sportivo, che all’epoca stava a Torino, sulla sfida Roma-Milano della boxe
Il commento ironico del Guerin Sportivo, che all’epoca stava a Torino, sulla sfida Roma-Milano della boxe

Nella pellicola, Valeri-Saccucci affermano che il regime mal gradì la vittoria del mulatto, perché il quasi tedesco Bosisio (italiani con la faccia da crucco come Bosisio non ce n’erano moltissimi in giro) piaceva di più come rappresentante della “pura razza italica”.

Da L’Annuario del Ring 1925, la presentazione di Bosisio
Da L’Annuario del Ring 1925, la presentazione di Bosisio

E qui, a gamba tesa, entrano le prime manipolazioni del regista, che distorcono la luce storica dell’evento: scene della Campagna d’Etiopia di sei, sette anni dopo.

La copertina de La Boxe Illustrata. Archivio privato
La copertina de La Boxe Illustrata. Archivio privato

E l’idea insinuante che subito Jacovacci fu rimpiazzato da Carnera, quando invece il gigante di Sequals, all’epoca, aveva passaporto “francese” (anche Leone ebbe inviti in tal senso dai manager transalpini, ma rifiutò) e sarebbe diventato un vessillifero della razza un quinquennio dopo.

E va bene. Appena vedemmo apparire le scenette delle gazzelle etiopi alle prese coi porcelli colonialisti fascisti impallidimmo, ripensando ad un certo libro di Ennio Flaiano.

Una “scivolata”, concedemmo con slancio magnanimo, dando un’occhiata alla bustina con la pastiglia caso mai fosse caduta dalla tasca della giacca. E però, la storiella fantasiosa continuò implacabile, cominciando pericolosamente ad assomigliare a una tela di Escher.

La voce narrante – o la voce autentica di Valeri, altri nove mesi di paranoia come questi e potrei dimenticare l’intero film – attaccò ad affermare recisamente che Mussolini aveva impartito l’ordine di censurare la vittoria del “nero”, così che nelle sale italiche era arrivato un filmato del match tagliato nella parte più interessante.

A questo punto sobbalzai… perché non era vero! Dovete sapere (immagino Valeri-Saccucci non lo sapessero) che l’abitudine dei cinematografi capitolini di proporre a pagamento i match di boxe era iniziata nel primo dopoguerra, e specificatamente con un incontro del francese Georges Carpentier, che un giorno era sceso a Roma per concedersi all’idolatria dei suoi tanti estimatori.

Una foto posata in studio dal campione italo-africano
Una foto posata in studio dal campione italo-africano. Per gentile cortesia della FPI

Andavano a questo genere di spettacoli sia coloro che avevano mancato dal vivo l’evento, magari disputato all’altro capo del mondo, sia quelli che volevano rivedere meglio le fasi tecniche. Nel 1928 siamo ancora nell’epoca del muto, il film venne effettivamente proiettato in un teatro di piazza Esedra; ed è illogico dare credito all’ipotesi che lo spettacolo Bosisio-Jacovacci sia stato presentato in quella sala, e nelle sale di altre città, privato dei round finali e del verdetto.

Obbiettiamo che i romani di allora, che non erano per niente micchi, avrebbero messo a ferro e fuoco il teatro (è capitato, per altre ragioni sempre tifoso-pugilistiche).

Quella sera d’estate, col virus-zanzara che mi girava intorno ma esitava a pungermi, rischiai davvero una brutta emicrania (sì, l’avete pensata giusta: il Momendol era rimasto nel cassetto). Perché la storia dolorosa dello “Zio Tom”, nella biografia filmica, andò avanti veloce su monorotaia come un treno giapponese.

Tranquillamente, con la più grande faccia tosta (solo per me: gli altri bevevano tutto), la voce narrante affermò che Jacovacci aveva smesso di combattere in Italia, dopo quel match trionfale (la folla allo stadio, in effetti, era stata tutta per lui), perché aveva annusato un vento razzista nei suoi confronti.

Un moto popolare aizzato ad arte dal regime nella figura del Bosisio, che se ne andava di qua e di là a raccontare alla gente come lui avesse vinto, nella sciroccosa Roma, e come i giudici avessero a bella posta rovesciato il verdetto. Cosa vera, per altro.

Tanto che nel registro personale dei suoi match, tenuto da Jacovacci e mostrato da Valeri nel film, la data 24 giugno 1928 non appare; e solo molti anni dopo, il vecchio pugile, divenuto nel frattempo un portiere di condominio a Milano, si era spinto ad inserirla a stampatello tra le righe: in un sanguinoso inchiostro rosso!

Valeri motiva l’incongruenza agganciandola alla sua tesi di base: il leone africano, disgustato dall’atteggiamento dei fratelli italiani, se ne era fuggito a Parigi. Ma questo è un altro errore da matita blu: Jacovacci si trasferì in Francia, dove tra l’altro era stato lanciato come boxeur e dove aveva molti contatti, perché poco dopo il suo match europeo morì Luigi Carpegna, il più importante promoter del tempo.

L’intera nostra boxe professionistica andò in crisi per lunghi anni, e un numero infinito di pugili emigrarono all’estero: in Francia, in Inghilterra, in Spagna, negli Stati Uniti, parecchi in Argentina, Uruguay e Brasile. Avendo scritto il libro ufficiale dei 100 anni della FPI, ho cognizioni al riguardo.

Da L’Annuario del Ring 1925, la presentazione di Jake Walker, il nome di battaglia di Jacovacci agli esordi della carriera.
Da L’Annuario del Ring 1925, la presentazione di Jake Walker, il nome di battaglia di Jacovacci agli esordi della carriera.

E allora, perché Jacovacci evitò di inserire nella lista il match? Non so se vi preme saperlo in questo preciso istante, ma comunque qui ve lo dico: semplicemente perché se ne vergognava! Sapeva di non averlo vinto, l’incontro della vita. Gli era stato regalato per un motivo politico: era in corso una feroce diatriba mediatica Milano-Roma su quale delle due città dovesse fungere da centro dello sport nazionale in Era Fascista.

E Mussolini aveva optato per il “nero de’ Roma”. Tra il 1928 e il 1930, tutte le federazioni furono spostate da Milano a Roma; allo Stadio del Partito proprio. Il bresciano Turati pilotò l’operazione.

Dice: Ma che ti stai levando un sassolino dalla scarpa? Ti rode ancora perché il tuo parere fu ignorato? Beh sì, anche. Nei titoli di coda del docu-film non riscontrai consulenze storiografiche. Mi parve strana la cosa. Probabilmente dovuta al fatto che Saccucci era professore di storia e filosofia al “Mamiani”, e quindi aveva opinato di saperne abbastanza per regolarsi in materia di sport fascista.

Il volume di Mauro Valeri, edito dalla Palombi nel 2008
Il volume di Mauro Valeri, edito dalla Palombi nel 2008

Valeri, invece, era ed è un sociologo di provato valore. Devo riconoscere che il suo lavoro è stato appassionato. Il libro di 400 pagine è notevole: cercatelo sul web. Tuttavia, è inficiato dal desiderio di fare un “regalo” al figliolo boxeur. Il suo ragazzo così somigliante a Jacovacci, colpito e avvelenato dalle ire arteriosclerotiche di un “anziano” nostalgico della giovinezza littoria su un bus circolante nei quartieri-bene. Io che abito in periferia, e gli autobus pieni di immigrati e figli di immigrati li prendo (li prendevo) spesso, vi posso assicurare che codesti atteggiamenti non esistono più, almeno nelle borgate della nostra labirintica metropoli.

I mulatti ridono e scherzano e non soffrono più. Magari soffrono i “gay”, gli zingari, gli alcolizzati, i disabili, i laziali quando i romanisti vincono e i romanisti quando i laziali vincono, qualche altra categoria che non va di moda, ma i mulatti con la mente chiara e lucida no. Sono pure tremendamente fichi agli occhi delle ragazze, in aggiunta.

Un’ultima piattonata e vi lascio: sapete quando, in realtà, l’Istituto Luce manomise l’ora di pellicola del match? Accadde all’indomani della promulgazione delle Leggi Razziali, nel 1938. Quelle odiosissime quanto stupide e anti-patriottiche normative che il pavido duce e l’altrettanto pavido re avallarono al fine di seguire l’isteria hitleriana.

Jacovacci anziano. Negli ultimi anni viveva a Milano con una pensione modesta. Dal volume “Nero di Roma”.

E allora, non pasticciamo con la storia dello sport, signori, per cortesia. Chiamiamo “Il pugile del Duce” un infiocchettato quanto gradevole film a soggetto storico e basta. Che abbia ricevuto il Nastro d’Argento 2018 non cambia nulla, anzi: ci fa ulteriormente riflettere.