Ogni anno, puntualmente, il 2 giugno sfila. Sfila con ordine, con disciplina, con l’orgoglio delle Forze Armate, con il rombo dei mezzi militari e l’acrobazia elegante delle Frecce Tricolori nel cielo. Eppure, per quanto affascinante e celebrativa, questa immagine rischia di confondere. Perché il 2 giugno non è il 4 novembre. Non è la festa delle Forze Armate, non è la celebrazione della potenza militare né della strategia bellica. È, prima di tutto, la festa della Repubblica, nata non da una guerra tra Stati, ma da un voto popolare.
Il 2 giugno 1946, gli italiani — per la prima volta anche le italiane — si recarono alle urne per scegliere tra Monarchia e Repubblica. Quel giorno non si imbracciarono fucili, ma matite, non si presero d’assalto trincee, ma si affollarono i seggi. La nuova Italia non nacque da un esercito, ma dalla volontà popolare. Eppure oggi, a distanza di 79 anni, quella data così simbolica viene raccontata troppo spesso con un’iconografia e una retorica che mette in primo piano l’uniforme e non la Costituzione.
È innegabile che le Forze Armate rappresentino una parte della Repubblica. Lo sono nella misura in cui ne incarnano la difesa, l’unità, la dedizione al bene collettivo. Ma ridurre il 2 giugno a una parata militare, con poche eccezioni, significa distorcere le origini stesse della nostra democrazia. La Repubblica, quella vera, quella nata dalle macerie morali e materiali del fascismo e della guerra, è figlia del sacrificio di uomini e donne che scelsero di ribellarsi. Che imbracciarono le armi solo quando ogni altra via era negata, che lottarono contro un regime e contro una monarchia complice, non per gloria personale, ma per restituire al Paese un futuro.
La Repubblica è figlia della Resistenza, sì, ma anche, e soprattutto, dei padri e delle madri costituenti, che in quei mesi successivi al referendum scrissero la Costituzione più bella del mondo, come l’ha definita Piero Calamandrei. È a loro che si deve l’architettura dei diritti, dei doveri, dei limiti al potere. È per merito loro che oggi abbiamo norme che prevalgono su tutte le altre, le norme costituzionali, pietre angolari di una democrazia matura e vigile.
Non è un caso se l’Italia ha una Corte Costituzionale. Non è un caso se il Presidente della Repubblica ha come compito quello di garantire il rispetto della Costituzione, con la possibilità e la responsabilità di non firmare una legge ritenuta incostituzionale. La nostra Repubblica si fonda sulla legge, non sulla forza, sulla partecipazione, non sull’obbedienza cieca. Il potere del popolo espresso attraverso il voto è l’arma vera che ha fondato la nostra Repubblica.
Ecco perché è un’occasione sprecata, ogni anno, vedere il 2 giugno trasformato in una celebrazione a senso unico, in una passerella di mezzi blindati e fanfare. Non per togliere valore all’impegno delle Forze Armate — che spesso sono in prima linea nelle emergenze civili e nei teatri internazionali — ma per restituire equilibrio alla memoria collettiva.
Il 2 giugno dovrebbe essere anche, e soprattutto, una festa civile. Una giornata di riflessione pubblica sul senso della Repubblica, sulle sue conquiste e sui suoi limiti, sulla partecipazione politica, sull’uguaglianza, sulla giustizia sociale. Dovrebbe essere l’occasione per riscoprire il senso delle istituzioni, per leggere ad alta voce gli articoli della Costituzione nelle piazze, nelle scuole, nei teatri. Per parlare di libertà, di diritti, di storia, di futuro.
Perché la Repubblica siamo noi. Non chi sfila, non chi comanda, non chi si mostra in uniforme. Ma chi ogni giorno lavora, studia, partecipa, critica, propone, costruisce. Chi vota. Chi si informa. Chi non dimentica. Chi, semplicemente, vive la democrazia.
Ed è tempo che il 2 giugno torni ad appartenere a tutti.