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Quella pace così vicina, così lontana: il primo miracolo di Papa Francesco

26 Apr 2025 - From Piazza San Pietro in Roma in the presence of heads of state and royal delegations, the funeral of His Holiness Pope Francis

foto: Riccardo Piccioli

Era nell’aria, come una vibrazione invisibile, palpabile solo da chi sapeva guardare oltre le cerimonie, oltre le liturgie, oltre il dolore di un addio. Forse Papa Francesco lo aveva previsto, forse aveva intuito, con quel suo sguardo sempre un po’ più avanti rispetto agli altri, che il suo funerale avrebbe potuto essere qualcosa di più di un semplice commiato. Non possiamo saperlo con certezza. Ma quello che è accaduto il giorno del suo ultimo saluto al mondo intero, in una Piazza San Pietro gremita da centinaia di migliaia di fedeli e osservata da milioni di occhi, ha avuto il sapore di un seme gettato nella terra arida della geopolitica mondiale.

Francesco aveva programmato tutto in anticipo, come se volesse essere certo che la sua ultima testimonianza non fosse lasciata al caso. Ha spinto il Vaticano a rimettere mano a protocolli vecchi di secoli, ha disegnato, con la pazienza del seminatore, il suo ultimo grande gesto pubblico: un funerale che non fosse solo commemorazione, ma anche messaggio, gesto, invocazione viva. E così, mentre il Medio Oriente continua a sanguinare, con Israele assente, in una scelta che sa di grave colpa morale, in un altro angolo del mondo, su un altro fronte di guerra, qualcosa si è mosso.

Non erano bastati mesi di vertici, di dichiarazioni roboanti e di teatrini internazionali. Non era bastata, soprattutto, la grottesca messinscena di Donald Trump alla Casa Bianca, quell’incontro con Volodymyr Zelensky dominato dall’arroganza, più utile ai titoli dei giornali che alla pace vera. Invece, tra le navate millenarie della Basilica di San Pietro, su un suolo carico di storia e di spiritualità, due uomini si sono finalmente seduti uno di fronte all’altro. Nessun interprete, nessun portavoce, nessuna telecamera a suggerire o a manipolare. Solo Trump e Zelensky, due sedie, un tempo sospeso.

È stato lì, in quell’angolo improvvisato della Basilica, che il funerale di Papa Francesco ha compiuto il suo primo miracolo. Un colloquio breve, certo, forse impacciato, forse duro. Ma autentico. E soprattutto umano. Galeotta è stata la Basilica, certo, ma galeotto è stato soprattutto Francesco. Perché non servono i trattati quando a mediare è una vita spesa per invocare pace, fratellanza, giustizia. Lì, nella casa di un Papa che ha fatto della misericordia il suo vessillo, qualcosa si è incrinato nel muro di gelo e di odio. Un sasso è stato lanciato nello stagno immobile della diplomazia internazionale.

La pace è ancora lontana, lontanissima. I morti in Ucraina continuano ad aumentare, e l’odore della polvere da sparo avvelena ogni trattativa. Ma qualcosa si è mosso, ed è accaduto nel luogo più adatto, forse l’unico rimasto in grado di parlare al mondo senza dover alzare la voce: il Vaticano. Non più le aule svuotate dell’ONU, incapace da decenni di incidere davvero, non i tavoli di trattativa dove le agende personali contano più delle vite umane. No: proprio lì, sotto le volte di una chiesa che ha visto passare secoli di guerra e di pace, si è accesa una fiammella.

Papa Francesco non c’è più, e il suo corpo ora riposa nella terra che aveva scelto come casa spirituale. Ma la sua voce, il suo grido in favore dei migranti, dei poveri, degli ultimi, continua a risuonare tra i sampietrini calpestati da migliaia di pellegrini venuti ad onorarlo. E oggi quel grido sembra aver trovato eco persino nel cuore di leader abituati a pensare più ai propri confini che alla sofferenza collettiva.

Quella pace resta fragile, sospesa su un filo sottile. Ma per la prima volta dopo tanto tempo non appare più impossibile. Non più utopia da predicare nelle messe o nei comizi, ma possibilità concreta. E tutto questo, paradossalmente, grazie a chi ha sempre ricordato che la pace non è il frutto della forza, ma della tenerezza; non dell’imposizione, ma dell’ascolto; non del compromesso, ma della conversione dei cuori.

E forse è proprio questo il lascito più potente di Papa Francesco. Non un’enciclica, non una riforma, non un gesto teatrale. Ma il seme di un incontro, la scintilla di un dialogo nuovo, l’eco di un sogno che ancora resiste. Perché anche se il mondo sembra troppo cinico per credere ai miracoli, ogni tanto, in un angolo nascosto di una basilica millenaria, accade che due uomini si guardino negli occhi e scoprano di essere ancora umani.

Così, mentre il sole tramontava su Roma e i cori della liturgia si spegnevano nella sera, la piazza lentamente si svuotava. Ma in quell’aria ancora sospesa rimaneva qualcosa di diverso, qualcosa che sfuggiva ai comunicati ufficiali. Era la sensazione che un pezzo di futuro, fragile ma reale, fosse appena nato. Un futuro che, forse, un giorno potremo chiamare davvero con il suo nome più bello: pace.

Un miracolo. L’ultimo, forse, di Papa Francesco.
O il primo di una nuova storia.