All’interno della mostra personale “La Vanità dell’Assenza” di Dario Fiocchi Nicolai, che inaugura il 13 giugno presso Kayros Contemporary Art a via Giulia, questa tela si impone come uno dei fulcri visivi ed emotivi dell’esposizione, offrendo una narrazione pittorica stratificata, provocatoria e ambivalente.
La scena proposta da Fiocchi Nicolai è quella di un convito deforme e corrotto, dove i gesti, i volti e i corpi dei personaggi tradiscono una tensione sottile, un’irrequietezza collettiva. Nessuno è veramente in dialogo con l’altro: ognuno sembra chiuso nel proprio atto, nel proprio tentativo di afferrare un momento, un’identità, un ruolo. Le mani affondano nei piatti, si protendono, si attorcigliano in gesti che sembrano espressioni disperate di una fame ben più profonda della semplice necessità materiale.
E qui sta la vera intuizione pittorica: i piatti non sono vuoti, ma anzi, diventano superfici emblematiche, delimitate da uno sfondo bianco che contrasta in modo netto con la densità, il caos e la saturazione cromatica del resto della scena. Questo bianco – il non-colore per eccellenza – esplode per contrasto con le tinte cupe, i rossi, gli ocra e i verdi malati che avvolgono i personaggi. Come se proprio nel piatto, oggetto simbolo di nutrimento e socialità, si aprisse uno spazio altro, pulito, ma non pacificato.
Il bianco dei piatti non è purezza, ma assenza d’identità, sospensione. È in quella luce che si riflette, impietosa, la tensione tra ciò che viene consumato e ciò che resta irrisolto. E in questo contrasto, Fiocchi Nicolai costruisce una composizione fortemente teatrale, dove il confine tra spettatore e personaggio si assottiglia fino a scomparire.
Lo spettatore è immerso nella scena. Il punto di vista è frontale, coinvolgente, quasi intrusivo. Le figure dipinte sembrano sporgersi verso chi guarda, come se volessero coinvolgerlo nel gesto, nella posa, nella messinscena del loro “banchetto”. Ma non c’è celebrazione né abbondanza: c’è, piuttosto, un rituale stanco, meccanico, in cui il nutrimento non sazia, ma inquieta.
Il tratto pittorico di Fiocchi Nicolai è come sempre vibrante, espressionista, volutamente imperfetto. La materia pittorica si fa corpo e rovina, volume e dissoluzione. I volti si sciolgono, le figure si confondono. L’autore non cerca armonia, ma frizione. Non bellezza, ma verità – anche se scomoda, anche se parziale.
In questa tela – tra le più dense della mostra – l’artista costruisce una metafora spietata della fruizione, intesa non come esperienza estetica, ma come atto di assimilazione compulsiva. I personaggi si nutrono dell’altro, ma non lo incontrano. L’arte stessa, forse, è servita qui non come celebrazione, ma come riflessione sul desiderio che consuma.
Ma a voler leggere bene, sembra anche esserci una sottile riflessione proprio nell’integrazione emozionale tra la tela e la mostra, a proposito della lettura proposta dal curatore della mostra, Matteo Maione, il quale ha condiviso una riflessione affilata quanto lucida sulla trasformazione culturale del concetto stesso di vernissage. «In tempi remoti – afferma Maione – partecipare a un vernissage significava essere dei privilegiati, dei veri prescelti, proprio perché solo in quell’occasione l’artista stendeva sul quadro la vernice finale trasparente, l’atramentum, affinché i dipinti mostrassero una maggiore lucentezza, prima dell’apertura ufficiale al pubblico».
Oggi, invece, partecipare a un vernissage significa, molto spesso, non essere più scelti, ma semplicemente scegliere, con un click, tra mille eventi che si somigliano tutti. Ecco che in quei luoghi d’arte si aggirano figure evanescenti, come quelle della tela di Fiocchi Nicolai, anime impalpabili alla ricerca non dell’arte, ma di un pretesto per esserci, per essere visti, per apparire. E magari per mangiare qualcosa, come se l’arte fosse ormai solo l’occasione per un bicchiere di vino, uno stuzzichino, un selfie.
L’opera di Fiocchi Nicolai sembra dunque rappresentare esattamente questa dinamica, ma senza moralismi: la mostra nel quadro, il quadro nella mostra, e il pubblico che diventa esso stesso parte di quel rito. I piatti diventano metafora non del nutrimento, ma dell’evento mondano, del momento di consumo dell’arte non come esperienza, ma come decorazione sociale.
E dopo l’analisi, corretta ed attualizzata di Maione, è proprio la mostra di Dario Fiocchi Nicolai a volersi proporre come una scommessa concreta per ristabilire un equilibrio. Un tentativo dichiarato e consapevole di ricondurre l’attenzione del pubblico verso l’opera, verso l’arte intesa come luogo di senso e non solo di visibilità.
Attraverso il suo linguaggio pittorico inquieto e profondo, l’artista si riappropria del momento espositivo, non per ricreare un’esclusività perduta, ma per invocare una nuova forma di partecipazione, fondata sulla concentrazione, sull’osservazione silenziosa, sulla capacità di sostare davanti all’immagine. E questa tela, così ricca di implicazioni simboliche, così capace di interrogare lo spettatore, incarna perfettamente questo intento. Non urla, ma reclama attenzione. Non intrattiene, ma invita alla presenza. È, nel caos di corpi e gesti che la abitano, un inno sommesso ma potente alla centralità dell’arte, alla sua necessità di essere ancora oggi spazio di confronto e rivelazione.
Fiocchi Nicolai, con il suo tratto nervoso e i volti liquidi, non giudica, ma osserva. E ci invita a osservare a nostra volta, non l’opera, ma il nostro modo di stare dentro all’opera, di starle attorno, di aggirarci nei luoghi dell’arte alla ricerca di qualcosa che forse non vogliamo davvero vedere. In questo, l’artista diventa testimone e testimone silenzioso, spettatore lucido di un rituale che si ripete con costanza: andare, guardare, fotografare, dimenticare.
Dal 13 giugno al 31 luglio, presso Kayros Contemporary Art, questa tela e le altre quattordici opere in mostra promettono di fare esattamente questo: non offrirsi come oggetto da gustare, ma come pensiero da digerire. In un tempo di immagini sature e fame di attenzione, “La Vanità dell’Assenza” è un invito a riconoscere la nostra stessa assenza e, forse, a trasformarla in presenza consapevole.