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L’enigma dello sguardo e il teatro dell’anima

Osservare una tela di Dario Fiocchi Nicolai è come entrare in un’eco visiva che continua a riverberare ben oltre i bordi del quadro. In questa particolare opera, l’artista sembra costruire un palcoscenico psicologico dove ogni elemento – dal colore al gesto, dallo sguardo alla distanza – partecipa a una narrazione interiore, più che figurativa. L’attenzione si riflette qui in ogni pennellata: nulla è completamente definito, eppure tutto vibra di significato.

La prima impressione è un’esplosione cromatica che travolge lo sguardo: il rosso, il giallo, l’arancio – colori caldi e incandescenti – creano un fondale che non descrive, ma brucia. Sono toni che evocano il disagio, la tensione emotiva, la precarietà di un’esistenza che cerca un equilibrio tra esistere e scomparire.

Questi colori non sono sfondo, ma atmosfera mentale, in cui si collocano le figure come apparizioni. C’è qualcosa di teatrale, persino sacrale, nella scelta di questa gamma cromatica, che suggerisce una scena che non è reale, ma interiore.

Il centro emotivo del quadro è dominato da una figura femminile in primo piano, il cui sguardo si impone, enigmatico e impenetrabile. Non guarda davvero verso lo spettatore, ma sembra oltrepassarlo, come se sapesse qualcosa che non può (o non vuole) dire. Il volto è pallido, i tratti sono allungati e appena accennati: non un ritratto, ma un’evocazione. È un volto che interroga chi guarda, senza fornire risposte.

La postura della figura è ferma, ma non statica. C’è un senso di movimento trattenuto, come se fosse stata sorpresa in un attimo di rivelazione o disillusione. Il corpo, immerso in una veste dai toni terrosi e violacei, pare galleggiare in uno spazio che non ha confini. L’identità è indefinita, e forse è proprio questa indefinitezza a renderla universale.

Alle spalle della protagonista si apre un ulteriore livello di lettura: una scena interna alla scena, un quadro nel quadro. Alcuni personaggi osservano un’opera appesa a una parete che contiene, a sua volta, delle figure. È un gioco di riflessi che richiama il teatro dell’osservazione, dove chi guarda è anche guardato.

In questa parte dell’opera, Nicolai riflette sul ruolo dell’arte come specchio dell’umano: ciò che accade nel quadro riflette ciò che accade fuori da esso. Gli spettatori dipinti diventano alter ego di chi osserva davvero la tela, creando una vertigine percettiva che confonde i piani tra realtà, rappresentazione e coscienza.

Il tratto pittorico è vibrante, nervoso, a tratti sfilacciato. Non c’è compiacimento nella forma, né ricerca di armonia. La pittura di Nicolai è una scrittura emotiva, che si fa largo tra le sbavature e le sfocature. Il contorno si perde, il colore si mescola, come a dire che nessuna identità è fissa, che ogni presenza è transitoria.

Questa imperfezione consapevole è il segno più profondo dell’autenticità dell’artista: nulla è levigato, tutto è vissuto. Ogni figura sembra emergere da un sogno, o da un ricordo, come un’apparizione che ci attraversa senza fermarsi.