C’è troppa aggressività e violenza intorno a noi. Anche tra i giovani. La manutenzione di una comunità si rende necessaria. Senza pregiudizi, luoghi comuni e sentenze facili: non si debbono solo cercare colpevoli (scuola, famiglia, società, …) o banali giustificazioni del tipo “è sempre stato così”. Bisogna prendere atto che si deve intervenire e il counseling potrebbe essere uno strumento valido.
Sembra un incubo senza fine. Israele ha attaccato anche l’Iran, compiendo una ennesima e intollerabile violazione della legalità internazionale. Con l’attacco israeliano e la risposta iraniana si è aperto un nuovo tragico fronte di guerra. Il rischio di escalation è altissimo. La guerra può diventare globale. Potere, guerre e violenza sono sempre esistiti ma hanno sempre rappresentato l’immondizia della storia degli umani. Anche se poi la storia insegnata sui banchi di scuola è un susseguirsi di guerre, trattati di pace, confini spostati e spartizioni del bottino. Ma la violenza è una deriva inaccettabile anche nel quotidiano, in famiglia, con il prossimo. Non si può stare solo a guardare.
L’aggressività è una caratteristica umana che può incidere positivamente o negativamente sui rapporti individuali e di gruppo. È ancora aperto il dibattito tra la socio-biologia che ritiene l’aggressività una dotazione biologica immutabile e la socio-psicologia che considera l’aggressività un prodotto della società, per cui essa può essere controllata attraverso il processo di socializzazione e l’adozione di determinate norme sociali.
L’aggressività è considerata un impulso negativo quando determina conflitti tra gli individui, i gruppi, le classi sociali e i popoli. In questo caso la carica aggressiva può sfociare in gravi fenomeni di violenza (aggressioni, sequestri, omicidi, esplosioni di furore individuale e collettivo) e avere un notevole peso sociale, assumendo significati morali e sociali diversi: arriva alla forma più estrema con l’annientamento fisico dell’avversario, oppure si esprime in forme distruttive come la sottomissione o lo sfruttamento di un altro essere umano. Forme abbastanza diffuse di aggressività si manifestano in parte visibile nella vita privata o nelle relazioni sociali. Si tratta di una violenza silenziosa e spesso impunita, fatta di maltrattamenti fisici, privazioni, brutalità anche sessuali, umiliazioni, forme di autoritarismo; un’aggressività che nasce e si sviluppa tra le mura domestiche, sui social, nella scuola, nella politica, nello sport, nei luoghi di lavoro, nelle comunità, nelle carceri, provocando gravi danni alla personalità con ripercussioni negative sull’intera società. E purtroppo la violenza, che talvolta trasforma la vendetta in diritto, abbraccia tutta la terra, fino a sfociare in conflitti tra stati.
Non si può stare a guardare. Bisogna intervenire con tutti gli strumenti a disposizione. Tra questi c’è sicuramente il counseling che è un processo relazionale, in cui si aiuta una persona ad affrontare problemi, prendere decisioni o gestire situazioni difficili attraverso l’esplorazione delle proprie risorse personali e la consapevolezza di sé. In sintesi, il counseling mira a migliorare la qualità della vita e a promuovere il benessere della persona.
Ne parliamo con il professor Stefano Masci, direttore della scuola CIPA counseling all’interno dell’Università degli Studi Tor Vergata di Roma. La scuola CIPA counseling che proprio in questi giorni festeggia i suoi primi quindici anni.
Professor Masci, cos’è il counseling?
Il counseling è un intervento effettuato da un professionista, che ha studiato almeno tre anni in una scuola riconosciuta a livello nazionale, su un individuo o un gruppo di persone che portano un disagio esistenziale. L’obiettivo di tale intervento è sostenere le persone in momenti di difficoltà, promuovendo consapevolezza, autonomia e benessere. Non si occupa di patologie, ma di situazioni che ognuno di noi incontra spesso nella sua vita e che possono creare dolore, come una relazione che finisce, o ansia connessa ad una decisione che si fa fatica a prendere.
Nell’epoca dei social e del web coltivare relazioni autentiche diventa sempre più difficile? Se stiamo andando verso il declino delle relazioni, come uscirne?
La natura intersoggettiva degli esseri umani si sviluppa subito dopo la nascita e rappresenta uno dei principi cardine della nostra capacità di creazione di significato. Sin da quando veniamo al mondo l’entrare in relazione con l’altro svolge un ruolo chiave nella nostra esistenza (sopravvivenza). La base del counseling è la relazione: instaurare una relazione è fondamentale per il successo del trattamento verso un cambiamento più funzionale.
Nella nostra scuola insegniamo come entrare, costruire e mantenere una relazione sana, non solo con il cliente, ma anche, inevitabilmente, nel mondo personale con amici, familiari e colleghi. Ma perché questo funzioni c’è bisogno di “contatto”. I social sono ormai uno strumento imprescindibile della vita, ma portano con sé il rischio di un isolamento. La recente pandemia ha creato un incremento di hikikomori: “perché sbattermi in giro quando ho migliaia di amici qui, nella mia stanza. A portata di… click!”
Una relazione è fatta di sorrisi –non emoticon–, di sguardi, di atteggiamenti e comportamenti, di intimità fisica: toccare una mano o prendersi sottobraccio. Non credo che la mia sia una considerazione da anziano, ma che abbia una sua radice filogenetica.
Chi si rende protagonista di reazioni incontrollate, forse si trova in una situazione di carenza conflittuale che è caratterizzata da un’incapacità dell’aggressore di gestire le emozioni?
Lo scopo di una relazione ‘sana’ è di modulare le emozioni disregolate. La mamma rimprovera il piccolo per insegnargli il giusto e per tenerlo lontano dai pericoli. Il bambino si disregola e piange; prova vergogna e sensi di colpa, la mamma –sufficientemente buona come dice Winnicott–, dopo un po’ lo consola e invia messaggi impliciti della serie: tranquillo, io ci sono.
Se questo è mancato, se non c’è stato un attaccamento sicuro, se nessuno ha insegnato –al piccolo– come ci si auto regola, è inevitabile confondere le emozioni, pensando che la rabbia –che porta alla violenza– sia amore.
Il counseling può essere strumento efficace per promuovere una nonviolenza attiva?
Assolutamente sì! Insegniamo ai nostri clienti (pazienti) a dare un nome a ciò che sentono, a riconoscere le emozioni e i comportamenti ad esse associati: la paura ci fa ritirare o ci spinge a combattere, la vergogna e i sensi di colpa ci fanno riflettere su ciò che abbiamo fatto. Le emozioni consapevoli ci dicono chi siamo e un percorso di counseling ci permette di migliorare e stare in armonia con noi e con gli altri.
Congedandomi dal professor Masci, concludo evidenziando che chi è incapace di reggere la conflittualità relazionale si espone al rischio di agire comportamenti violenti verso gli altri e a volte anche verso sé stesso. Talvolta le nostre modalità relazionali mettono in luce mancanze nella capacità di affrontare e gestire i conflitti. Se la carenza conflittuale può essere foriera di eventi drammatici, si può provare a prendere dimestichezza con le competenze nella gestione dei conflitti, per prevenire le estremizzazioni violente, considerando così l’altro una risorsa invece che una minaccia.
Come disse Eugene Ionesco, scrittore e drammaturgo francese di origini rumene famoso per il suo Teatro dell’Assurdo, “Dio è morto, Marx pure, e anche io non mi sento molto bene”. Citazione, in seguito attribuita a Woody Allen, che è la dimostrazione plastica della futilità dei gesti umani dinanzi alla fuggevolezza della vita e l’approssimarsi e il trionfo della morte. E allora viva la vita e la lotta all’indifferenza, utilizzando anche strumenti come la relazione efficace e il counseling.