Stiamo vivendo in un incubo, ogni ora peggiore. Siamo sull’orlo del precipizio anche per l’intervento diretto degli Usa nella guerra scatenata da Israele contro l’Iran. In Iran e in Israele, la popolazione civile è sotto le bombe. E intanto si scopre che l’Agenzia Internazionale Agenzia internazionale per l’energia atomica non aveva mai detto che l’Iran stesse costruendo armi nucleari. Fermiamo la follia!
Il mondo intero è con il fiato sospeso. In Europa, il cancelliere tedesco Merz ha dichiarato che “Israele sta facendo il lavoro sporco per noi”. Il Parlamento Europeo approva la possibilità di usare i fondi del Pnrr per le armi. Il governo italiano vuole istituire una riserva militare di 10mila persone addestrate e pronte a combattere. La Nato sta imponendo ai paesi europei di spendere il 5% del PIL in armamenti, e di militarizzare la scuola, la formazione, l’economia e la società.
Sabato 21 giugno a Roma, da Porta San Paolo e da Piazza Vittorio al Colosseo, si è mosso un popolo che vuole contrastare in ogni modo questa deriva bellicista e far sentire la propria voce. Si sono volute unire le forze contro questa follia. Il manifesto della manifestazione nazionale recitava: “È dalla guerra, dall’ingiustizia, dallo sfruttamento che dobbiamo difenderci, non da altri popoli o da altri paesi. Vogliamo vivere in pace, nei diritti, nella democrazia. Vogliamo una Europa, una Italia, una società e una economia disarmata, fuori dalla logica dei blocchi militari, vogliamo il disarmo. I conflitti vanno risolti con la politica, la diplomazia, il diritto internazionale”.
Sabato scorso si sono unite, con convinzione e passione, diverse lotte, diverse culture, identità, appartenenze. E hanno ribadito che solo insieme si potrà alzare una barriera efficace contro la guerra, il riarmo, il genocidio, l’autoritarismo. Solo insieme si potrà superare la paura, sconfiggere la rassegnazione, costruire uno spazio accogliente che possa accogliere ogni persona che non sopporta più di vivere in questo mondo ingiusto, crudele e sbagliato.
«Se ci muoviamo in modo convergente, in Italia e in Europa, possiamo farcela. L’Ue scelga la diplomazia e fermi la barbarie» – sottolinea Raffaella Bolini di Stop Rearm Italia – «insieme possiamo avere la forza che serve».
E per far capire quanto il riarmo sia inevitabilmente il preludio alla guerra, è andato in scena un die-in (la simulazione di una ecatombe) intorno al Colosseo: è stato chiesto ai manifestanti di portare un lenzuolo da stendere per terra e, a un segnale sonoro (bombe su Gaza), di sdraiarvisi sopra, per rievocare i morti e la devastazione che le guerre causano tra tutti i contendenti.

Anche Carlo Cefaloni, redattore di «Città Nuova» e coordinatore del gruppo di lavoro “Economia Disarmata” promosso dal Movimento dei Focolari in Italia, sottolinea che “siamo nel pieno di un tempo paradossale in cui si invoca la pace ma si precipita sempre di più verso il baratro della guerra. Occorre liberarsi da una visione pessimistica dell’essere umano e agire per costruire istituzioni di pace. La struttura attuale di Banca Mondiale e FMI fomentano i conflitti. Il Ministero della Pace non è un’utopia astratta”. (Le radici culturali del riarmo, dialogo con Stefano Zamagni – Città Nuova).
Anche la Chiesa ha preso una posizione netta con il cardinale Parolin, segretario di Stato Vaticano, che a margine di un incontro nell’ambito del giubileo dei governanti, risponde: “è bene, è bene che ci sia una mobilitazione in generale per evitare la corsa al riarmo”.
E poi direttamente con Papa Leone XIV che durante l’Angelus di domenica scorsa ha esortato a trovare la strada della pace: “Oggi più che mai, l’umanità grida e invoca la pace. È un grido che chiede responsabilità e ragione, e non dev’essere soffocato dal fragore delle armi e da parole retoriche che incitano al conflitto. Ogni membro della comunità internazionale ha una responsabilità morale: fermare la tragedia della guerra, prima che essa diventi una voragine irreparabile. Non esistono conflitti “lontani” quando la dignità umana è in gioco. La guerra non risolve i problemi, anzi li amplifica e produce ferite profonde nella storia dei popoli, che impiegano generazioni per rimarginarsi. Nessuna vittoria armata potrà compensare il dolore delle madri, la paura dei bambini, il futuro rubato. Che la diplomazia faccia tacere le armi! Che le Nazioni traccino il loro futuro con opere di pace, non con la violenza e conflitti sanguinosi!”.
Una proposta interessante viene anche da Fabio Alberti, storico attivista per la pace e i diritti di tutti nel mondo, esponente di spicco di Un ponte per, che “sollecita a provare a cambiare punto di vista. Viviamo in un frangente storico in cui tutto sembra mettere in discussione certezze che davamo per acquisite. Bisognerebbe, dunque, guardare la guerra dal basso e dall’esterno del nostro Occidente”. Siamo inoltre abituati a osservare la guerra dall’interno dell’Europa, del cosiddetto occidente: il resto del mondo è assente. Eppure, le popolazioni europee, russe e statunitensi – i “bianchi” – rappresentano poco più del 15% della popolazione mondiale. Il restante 85% non è bianco: è scuro, meticcio, nero; africano, asiatico, sudamericano. Tuttavia, ci consideriamo il centro del mondo e, quando discutiamo, vediamo solo Europa, Nord America e Russia, convinti che questo sia il mondo. La guerra, vista da fuori dell’Europa, è un’altra cosa. “Cosa significa, dunque, vedere la guerra dal basso? – continua Fabio Alberti – Chi sta sotto, quando vede cadere un obice, di solito non riesce a leggere la targhetta che indica dove è stato prodotto e spesso non sa neppure chi lo abbia sganciato. Viste da sotto, le guerre sono tutte uguali: portano la morte a chi non ha mai dichiarato di essere pronto a sacrificarsi per questo o quel motivo. Per questo non esistono guerre giuste: chi paga con la vita non l’ha messa a disposizione, spesso non sa nemmeno perché lo stanno uccidendo, di solito non c’entra nulla e non riesce, prima di morire, a capire perché sta morendo”.
Anche quando la guerra viene dichiarata per motivi considerati «giusti», occorre ricordare che vengono soppresse centinaia di migliaia di persone per il cui bene, in teoria, il conflitto si sta combattendo, ma che di quei benefici non potranno usufruire. Le vittime civili, nei più di cinquanta conflitti in corso, sono decine di milioni. A loro nessuno ha mai chiesto se ritenessero ragionevole morire per la patria, per l’economia, per la religione o per altro.
Nel caso dell’attacco indiscriminato, prima di Israele e poi degli Usa, all’Iran, ci troviamo di fronte non solo a un’altra chiara violazione del diritto internazionale ma anche ad una paradossale richiesta da parte degli aggressori: l’Iran non deve avere la bomba atomica e, a quanto pare, neppure pensare al nucleare civile. L’arroganza degli aggressori, supportata da migliaia di testate nucleari, tende a mantenere la loro supremazia solo con la superiorità militare e a decidere chi può avere il nucleare e chi no. Purtroppo, anche l’Unione Europea, perdendo il traino della potenza statunitense che le consentiva di assorbire risorse dal resto del mondo, punta sul riarmo e sulla militarizzazione.
La crisi tra Iran e Israele è un esempio emblematico di come le rivalità geopolitiche possano avere profonde implicazioni a livello regionale e globale. Ma anche di come si possano falsificare o inventare le prove per giustificare un attacco militare. È stato detto che l’Iran sul nucleare ha ingannato la comunità internazionale, chiamando in causa un intervento dell’Aiea, l’organismo di controllo nucleare delle Nazioni Unite, che non c’è mai stato. Proprio come successe nel 2003 con le false prove delle armi chimiche iraqene. Comprendere le dinamiche di questo ultimo conflitto non è solo fondamentale per analizzare la situazione del Medio Oriente, ma è anche essenziale per valutare le sfide alla pace e alla stabilità nel mondo contemporaneo.
Cosa c’è in ballo? È in gioco la distribuzione della ricchezza del mondo. Il motore della guerra è la volontà dell’Occidente di impedire un’equa ripartizione fra tutte le popolazioni del pianeta. Il tenore di vita, misurato in termini di consumi energetici – indicatore certo imperfetto, ma indicativo – è oggi, negli Stati Uniti, ancora il doppio di quello europeo, il triplo di quello cinese, dieci volte quello indiano e venti volte quello delle popolazioni africane. E per mantenere questa disuguaglianza serve la guerra.
Un’altra strada da seguire, come dice Fabio Alberti è che bisognerebbe davvero pensare di disertare, uscire da un Occidente sempre più guerrafondaio ed entrare nel mondo.