#Rubriche #La voce di Andrea Maccari

Il problema siamo noi

“Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo”.  Frase di Voltaire che sembra lontana anni luce da quanto avviene costantemente intorno a noi

Una nuova pandemia pericolosa sta contagiando la nostra vita e tutto ciò che ci circonda. Infatti, circola da qualche tempo un pericoloso microrganismo dal quale è difficile difendersi. Si manifesta in modo apparentemente innocuo e i sintomi sono quasi sempre letti come una postura virtuosa: quella che assumiamo quando – di fronte ad un qualsiasi evento fuori e dentro di noi – scegliamo da che parte stare (ovviamente quella che sembra giusta a noi) per poi difendere rigidamente la nostra posizione. “Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo”.  La frase di Voltaire sembra davvero lontana anni luce da quanto avviene costantemente intorno a noi.

Ho scritto recentemente (Risvegli – Roma Sport Spettacolo) che ci troviamo in un mondo attuale così caotico e pericoloso, in cui c’è un’evidente divaricazione tra gli estremi ma allo stesso tempo sta anche montando una chiusura totale nei confronti dell’altro che non permette più confronti sereni. Niente più dialoghi su posizioni diverse ma dispute aspre da canile. Ruben Razzante, professore di diritto della comunicazione e dell’informazione, nonché giornalista, in un recente articolo ha affermato: “La dinamica del confronto segue un copione ormai familiare: la corsa a estremizzare, semplificare, schierarsi. Ci si getta nel pozzo senza fondo della polarizzazione, in quella zona grigia che grigia più non è, dove ogni sfumatura viene cancellata in favore di un’opposizione binaria, aggressiva, semplificatrice. In questa dinamica, i contenuti reali del dibattito si perdono quasi subito. Ciò che resta è un duello identitario, una specie di rito collettivo in cui ognuno deve scegliere se stare “con” o “contro”, senza possibilità intermedie, senza curiosità, senza ascolto.”

In tutto ciò non aiuta certo l’arena digitale che permette ad ognuno di urlare sui social la propria posizione talvolta anche nei confronti di perfetti sconosciuti e anonimi. Ciò che emerge con chiarezza dal mondo social è la difficoltà sempre più evidente a mantenere uno spazio di discussione pubblica in cui il dissenso non si trasformi automaticamente in scontro, in cui la complessità non venga subito ridotta a slogan, e in cui la realtà non debba per forza essere piegata alle esigenze del tifo. La natura stessa dei social media favorisce esattamente questo tipo di dinamiche: la semplificazione, la polarizzazione, la ricerca spasmodica del conflitto, anche esasperato. Il professor Razzante avrà certo notato come questa malattia ha ormai contagiato anche politica e giornalismo: anche il Parlamento e i talk show si trasformano in arene. Talvolta, continua Razzante, “la posizione più estrema, più rumorosa, più tagliente ha spesso la meglio su quella più riflessiva o ponderata. Questo non significa che non esistano voci equilibrate, capaci di affrontare anche temi complessi con senso critico e misura. La verità è che queste voci faticano a emergere; spesso vengono sommerse da un rumore di fondo assordante o finiscono per essere immediatamente etichettate, neutralizzate, assimilate a uno dei due poli del conflitto.”

Il microrganismo, però, non è attivo solo nell’arena digitale, in politica o nei programmi televisivi, le sue nocive conseguenze finiscono per contagiare le stesse relazioni personali, addirittura quelle amicali.  La radicalizzazione delle posizioni infetta anche le relazioni tra le persone, rendendo impossibile discutere senza trascendere, a meno di evitare del tutto ogni discussione di merito limitandosi a restare in quella terra di nessuno in cui non esistono opinioni, come si fa in ascensore. Questo è evidentemente una sconfitta, un drammatico immiserimento, è rinunciare a trovare un canale comunicativo che riesca a tenere distinti il piano delle opinioni personali e quello delle relazioni tra le persone.

Anche Giovanni Floris, giornalista e conduttore televisivo, nel suo ultimo libro “Asini che volano” (Solferino, 2025), affronta l’argomento dell’incomunicabilità e ci racconta l’Italia attraverso le sue commedie più irresistibili, dove i «mostri» facevano ridere, non governavano. Un ritratto spietato e malinconico di un Paese che, un tempo, sapeva ridere di sé. Un tempo la commedia si ispirava alla vita, ora è il contrario: i «mostri» di cui una volta ridevamo ora sono al potere e non hanno vergogna di niente. Eppure, per decenni abbiamo capito meglio l’Italia e noi stessi grazie a trame corrosive o surreali, a battute rimaste nella storia, a personaggi indimenticabili. Ci piacevano, quei personaggi, con tutti i loro difetti, e ci facevano ridere. Oggi che invece ci fanno paura, è il momento di riscoprire le caratteristiche dell’italiano rappresentato in quelle pellicole: spesso arrivista, arruffone, un po’ vigliacco, ma anche umano, comunicativo, creativo. Ma non disperiamo e soprattutto non arrendiamoci. Laddove ci sono muri si possono sempre costruire ponti!

Proprio come ci sollecita a fare Amedeo Piva, docente universitario già consigliere comunale a Roma: proviamo a ragionare dei contenuti senza mettere a rischio la relazione, argomentiamo del merito senza scivolare nel “tutto o niente”, discutiamo senza che il giudizio sulle opinioni diventi giudizio sulle persone. Per fare ciò bisogna rispettare il dubbio come metodo: il dubbio non è una minaccia, non è una fragilità: è ciò che ci impedisce di pietrificarci, che mantiene la nostra ricerca viva e aperta. Non si tratta di demolire ogni cosa, ma di accettare che le certezze non sono idoli intoccabili, bensì soste provvisorie in un cammino che non si esaurisce mai del tutto. Ammettere che le cose potrebbero non essere state sempre come noi siamo convinti che stiano è una salutare ginnastica della mente. Il dubbio non è una debolezza del pensiero, è la sua forza.

Sempre Amedeo Piva ci propone qualche soluzione riportandoci a Tommaso d’Aquino che, nella sua Summa Theologiae, utilizza il metodo della “disputa scolastica” per costruire ogni questione come un dialogo: prima vengono esposte le obiezioni, cioè le ragioni contrarie, poi un principio autorevole a sostegno della tesi opposta, e infine il tentativo di costruire una sintesi capace di integrare il vero che si trova anche nelle posizioni avverse. Questa struttura non è soltanto una tecnica logica: rivela la capacità di entrare nelle ragioni dell’altro, di comprenderne la forza e di prenderle sul serio. Una vera e propria empatia intellettuale che non riduce l’opinione opposta a una caricatura, ma la espone nella sua forma migliore, per poi mostrarne i limiti e aprire a una visione più ampia. Discutere non deve ridursi ad un semplice scontro di tesi, ma deve evolvere in un cammino di ricerca che passa attraverso l’ascolto, il riconoscimento e il dialogo. Tutta la scienza della gestione dei conflitti si basa su queste capacità dialogiche.

Probabilmente le discussioni pacate e i confronti che partono da questi presupposti non vanno più di moda, non fanno audience e non fanno aumentare il consenso. Ma visto come sta andando il mondo forse sono proprio i personaggi che applicano in maniera pedissequa il “manuale del perfetto prepotente” ad avere la meglio e vincono le elezioni. Ma bisogna essere consapevoli che il problema siamo anche noi. Anche perché, come sostiene Floris, i personaggi da film dovrebbero tornare a farci ridere (e pensare) anziché governarci.

“E nella luce nuda vidi

diecimila persone, forse più

gente che comunicava senza parlare

gente che sentiva senza ascoltare

gente che scriveva canzoni che nessuna voce avrebbe mai cantato

e nessuno osava

disturbare il suono del silenzio”