#Rubriche #La voce di Andrea Maccari

La forza del Lavoro

Il 1° maggio, festa o commemorazione? Dalla Costituzione ad oggi, dai richiami del presidente Mattarella ai referendum.

L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. Recita così il primo articolo della Costituzione. Con il lavoro l’essere umano partecipa allo sviluppo economico, sociale e culturale dell’umanità; dà prova dei propri talenti, ma solo se il lavoro è dignitoso e realizza la sua autonomia personale. Ma lavorare non deve significare necessariamente soffrire. Talvolta cediamo gran parte della vita per poi essere troppo stanchi per godercene i frutti. Dovremmo anche imparare ad indignarci e non accettare tranquillamente la mostruosa disparità economica nel mondo, che costringe alcune persone a dover faticare centinaia di ore al mese per stipendi da fame mentre altre possiedono patrimoni letteralmente inconcepibili. Come sostengono Andrea Colamedici e Maura Gancitano (Ma chi me lo fa fare?, ed. HarperCollins, Milano, 2023), bisognerebbe osservare in che modo abbiamo trasformato un potenziale strumento di liberazione nella più sottile e pervicace forma di schiavitù mai apparsa sulla Terra. Sembra davvero assurda una vita vissuta ad ammalarsi con promesse di successo, di denaro, di carriera, in metropoli che dietro al sorriso affabile dell’efficienza nascondono la giungla spietata del tutti contro tutti.

Ma è anche vero che si può avere qualche problema di salute anche senza lavorare. La disoccupazione e la perdita del lavoro possono avere un impatto significativo sulla salute mentale, aumentando il rischio di ansia, stress, depressione e altri disturbi. L’assenza di lavoro può portare a una diminuzione dell’autostima, conseguenti problemi finanziari, alla perdita di identità professionale e sociale. A volte capita che stress e malessere si manifestino attraverso sintomi fisici quali mal di testa, mal di schiena, disturbi del sonno, stanchezza, mancanza di energia.

Come ci ha ricordato più volte anche Papa Francesco, con parole nette sul dramma di chi non ha un’occupazione che gli “permetta di vivere serenamente”. Ma anche di chi fa mestieri usuranti, in nero, chi muore lavorando, i bambini costretti a lavorare. Per loro il lavoro, più che “un mezzo di umanizzazione, diventa una periferia esistenziale”. Così Francesco ha invitato tutta la Chiesa a domandarsi cosa fare “per recuperare il valore del lavoro” e perché “sia ricattato dalla logica del mero profitto e possa essere vissuto come diritto e dovere fondamentale della persona, che esprime e incrementa la sua dignità”. E chiede ai governanti di “dare a tutti la possibilità di guadagnare il pane, perché questo guadagno dà loro la dignità”.

Inoltre, quella delle morti del lavoro è una piaga che non accenna ad arrestarsi, come ci ha ricordato recentemente anche il Presidente Mattarella: “Non sono tollerabili né indifferenza né rassegnazione”. E continuando con le sollecitazioni, ha affermato: “Un lavoro che non può essere quello di consegnare alla morte, ma che sia indice di sviluppo, motore di progresso, sia strumento per realizzarsi come persona… Il lavoro non può separarsi mai dall’idea di persona, dalla unicità e dignità irriducibile di ogni donna e di ogni uomo”.

Parole che stimolano riflessioni ma allo stesso tempo azioni per arginare la degenerazione della ragione occidentale ormai ridotta, nella società di massa, a mera razionalità strumentale, cioè a tecnica. Così il dominio dell’umanità sulla natura per mezzo della tecnica consente ai detentori dell’apparato tecnico un dominio assoluto sul singolo, che ne viene schiacciato e nutrito al tempo stesso. La mercificazione di ogni cosa, compresi i rapporti umani e gli affetti, diviene così lo strumento con cui si persegue l’addomesticamento delle menti.

Seguendo il Freud di Disagio della civiltà, cui si richiama anche Herbert Marcuse nel suo Eros e civiltà, il progresso economico e tecnologico ottenuto con i metodi attuali, lungi dal mirare allo sviluppo della personalità, è fondato sulla repressione dell’eros per cui la civiltà esige il disagio della nevrosi e la rinunzia della felicità.

Lo afferma anche Domenico De Masi ne La felicità negata: “Promettendo un aumento continuo della produttività e del benessere, il sistema riesce a nascondere i danni che esso stesso produce: meccanizzazione e standardizzazione della vita, impoverimento psichico, crescente distruttività del progresso e restrizione della libertà. Proprio quando sembra che le conquiste materiali e intellettuali dell’umanità consentano la costruzione di un mondo finalmente libero, proprio quando la civiltà appare al suo culmine, diviene massima anche la subordinazione dell’uomo all’uomo…

Ed è proprio partendo dai concetti sopra espressi, che dovremmo mettere in pratica l’articolo 1 della Costituzione, laddove per lavoro dobbiamo intendere anche una sorta di cittadinanza attiva, per rieducare il cittadino ad esercitare la propria sovranità.

Un’occasione per ribadire la nostra cittadinanza attiva, la offriranno i cinque referendum dell’8 e 9 giugno. Quesiti referendari che riporteranno al centro della discussione il lavoro e l’importanza della presenza dei cittadini nelle istituzioni. Contrastando un’idea dilagante di democrazia illiberale, preoccupante tentativo di accentrare i poteri e una propaganda degna dell’Istituto Luce del ventennio. Con il referendum non lasciamo che gli altri decidano per noi! E con un fare arrogante ci vogliono rubare questo diritto, invitandoci a non andare a votare! Ricordiamoci della Cortellesi nel film “C’è ancora domani”…

Non lasciamoci rubare la speranza e i diritti!