L’arte farmaceutica nell’antica Roma rappresentava un aspetto fondamentale della medicina, testimoniando il livello di sofisticazione raggiunto dai medici dell’epoca. Le fonti storiche e letterarie descrivono una vasta gamma di rimedi, che spaziavano da antisettici, narcotici e antinfiammatori a sostanze prive di efficacia o addirittura tossiche, spesso somministrate senza un preciso controllo del dosaggio. Se alcune delle conoscenze mediche romane hanno trovato conferma nelle ricerche scientifiche moderne, molte altre erano frutto di superstizioni e credenze popolari.
Il termine “farmacia” deriva dal greco pharmakon, che indicava qualsiasi sostanza in grado di influenzare la salute, comprendendo sia i farmaci veri e propri sia veleni e pozioni magiche. Questa concezione greca ebbe una profonda influenza sulla medicina romana, che non solo assorbì il sapere ellenistico, ma lo arricchì con conoscenze provenienti da altre culture, come quelle egizia, pontica e gallica.
I Romani chiamavano le sostanze e i preparati farmaceutici “materia medica”, un’espressione che si traduce letteralmente come “sostanze mediche” e che ha lasciato un’impronta duratura nel lessico medico moderno. In questo contesto, il concetto di pharmaka comprendeva non solo le medicine tradizionali, ma anche amuleti e talismani, che giocavano un ruolo essenziale nella medicina popolare del Mediterraneo.
I farmaci romani venivano preparati attraverso un’attenta combinazione di ingredienti vegetali, animali e minerali, macinati e miscelati con strumenti semplici come mortaio e pestello. A seconda delle necessità, venivano trasformati in unguenti, pastiglie, pillole e supposte, oppure assunti sotto forma di bevande medicinali e tisane.
Un metodo piuttosto singolare di somministrazione consisteva nell’inalazione dei fumi prodotti dalla combustione di alcuni ingredienti, pratica utilizzata per trattare malattie respiratorie o disturbi psichici. Lavaggi e sciacqui erano impiegati per la cura delle ferite, degli occhi e delle orecchie, mentre pezzi di pane imbevuti di infusi medicinali venivano ingeriti per trattare vari disturbi interni.
Nella farmacopea romana, quattro ingredienti erano considerati fondamentali per la preparazione dei medicinali: olio, aceto, vino e miele. L’olio, che poteva essere sia di origine vegetale che animale, veniva utilizzato per le sue proprietà purificanti e idratanti sulla pelle. Il vino, oltre a mascherare il sapore sgradevole di alcuni ingredienti, aveva un effetto calmante e rilassante sui pazienti. Il miele, noto per le sue proprietà antimicrobiche, era spesso applicato su ferite e lesioni per prevenire infezioni. Infine, l’aceto, grazie alla sua acidità naturale, possedeva proprietà antisettiche, motivo per cui era frequentemente utilizzato per disinfettare ferite e strumenti chirurgici.
Oltre a questi elementi fondamentali, i farmaci romani includevano una vasta gamma di sostanze, alcune benefiche, altre neutre o altamente tossiche. Tra gli ingredienti di origine vegetale, vi erano piante come il papavero, la mandragora, il giusquiamo e l’aconito, molte delle quali contenevano alcaloidi tossici in grado di alterare lo stato di coscienza o di agire come narcotici. Non mancavano ingredienti di origine minerale, come ceneri e ossidi di metalli, tra cui il piombo e il rame, e sostanze di origine animale come sangue, urina, escrementi e insetti. I coleotteri bombardieri, ad esempio, venivano utilizzati per bruciare chimicamente le verruche, mentre la cantaridina in essi contenuta era impiegata come afrodisiaco.
Molti farmaci venivano essiccati e confezionati in panetti solidi, che i medici spezzavano in dosi più piccole per l’applicazione. I medicinali erano conservati in piccoli vasi e palette, strumenti che oggi gli archeologi analizzano attraverso tecniche spettroscopiche e analisi del DNA per identificare i residui delle sostanze contenute. Tuttavia, non sempre è possibile distinguere con certezza se una sostanza fosse destinata a un uso farmaceutico, cosmetico o alimentare.
La farmacopea romana si basava su una solida conoscenza della botanica, sebbene questa disciplina fosse ancora imprecisa. Autori come Dioscoride, con il suo De Materia Medica (50-70 d.C.), e Plinio il Vecchio, con la Naturalis Historia (77-79 d.C.), catalogarono numerose piante medicinali, fornendo dettagli sui loro usi terapeutici. Anche Galeno e Celso descrissero le proprietà di diverse erbe, contribuendo a costruire un sapere medico destinato a influenzare la farmaceutica per secoli.
Il commercio delle materie prime era fiorente e coinvolgeva un’ampia rete di mercanti e produttori. Durante il periodo imperiale, l’aumento degli scambi con le province permise ai Romani di accedere a ingredienti esotici come pepe nero dall’India, cumino dall’Etiopia, cannella araba, incenso e mirra, sebbene il costo elevato rendesse questi prodotti un lusso per pochi.
Le frequenti campagne militari resero necessario lo sviluppo di metodi avanzati per la cura delle ferite da combattimento. I Romani utilizzavano aceto, ocra rossa e resina di pino per prevenire le infezioni, mentre sostanze come galla di quercia e tela di ragno servivano a fermare il sanguinamento.
L’infiammazione era considerata un pericolo, poiché poteva portare alla cancrena, e veniva trattata con bendaggi medicati e cataplasmi. La credenza che il pus fosse un segno positivo di guarigione portava i medici a favorirne la produzione mediante applicazioni di lana bollita, grasso di maiale e pece.
I Romani utilizzavano numerosi narcotici per alleviare il dolore e indurre il sonno, sebbene il concetto di anestesia moderna fosse inesistente. Piante come la mandragora e la cicuta erano note per i loro effetti sedativi, ma venivano somministrate con estrema cautela a causa della loro tossicità.
Il papavero da oppio era coltivato per estrarne il succo, utilizzato in droghe e unguenti. Il Papaver rhoeas, una varietà meno potente, veniva impiegato per produrre la roeadina, un sedativo naturale. La chirurgia romana prevedeva raramente l’uso di anestetici: i pazienti venivano immobilizzati fisicamente piuttosto che sedati.
Sebbene alcune terapie romane fossero basate su principi empirici validi, molte cure erano inefficaci o pericolose. La conoscenza delle malattie era limitata e la selezione degli ingredienti avveniva spesso in base a teorie speculative. La mancanza di standard medici codificati e la rudimentale lavorazione dei farmaci portavano a forti variazioni nei dosaggi, rendendo difficile controllarne gli effetti.
Nonostante queste limitazioni, la medicina romana rappresentò un passo fondamentale nella storia della farmaceutica, gettando le basi per lo sviluppo della scienza medica nei secoli successivi.