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XI – Rione Sant’Angelo: anima antica di Roma tra storia, fede e leggenda

Nel cuore più profondo di Roma, dove la città eterna svela le sue pieghe più autentiche e struggenti, si cela il più piccolo dei suoi rioni: Sant’Angelo. Adagiato sulla sponda sinistra del Tevere, proprio di fronte all’Isola Tiberina, questo angolo di città custodisce un patrimonio storico, religioso e culturale che non ha eguali, e che si condensa in pochi isolati dalla densità emozionale travolgente. Qui, nel cuore pulsante dell’antico Ghetto, si stratificano secoli di storia, dolore, rinascita e memoria, in un equilibrio unico tra archeologia, architettura e identità.

Il rione Sant’Angelo, l’undicesimo tra quelli di Roma, deve il suo nome alla chiesa di Sant’Angelo in Pescheria, un tempo conosciuta come Sant’Agnolo Pescivendolo, situata accanto all’antico mercato del pesce sotto le colonne del Portico d’Ottavia. È proprio qui che si può ancora leggere – o almeno ammirarne la copia – la celebre iscrizione marmorea che regolava la lunghezza massima dei pesci venduti, ricordando con precisione giuridica il legame indissolubile tra fede, commercio e civitas. L’originale, preziosamente custodito nei Musei Capitolini, riporta in latino la regola secondo cui “le teste dei pesci più lunghi di questa lastra, fino alle prime pinne, debbono essere consegnate ai Conservatori del Campidoglio”.

Ma il rione è ben più di un quartiere: è un mosaico vivente, dove ogni pietra racconta una storia e ogni strada conserva un’eco. In questo perimetro, oggi frequentatissimo da turisti e romani, si estendeva il Ghetto ebraico di Roma, istituito nel 1555 con una bolla papale e rimasto attivo fino al 1870. Si tratta del secondo ghetto ebraico più antico al mondo, dopo quello di Venezia. Ancora oggi, il Ghetto è il cuore pulsante della comunità ebraica romana, che qui ha saputo tramandare, con fierezza e vitalità, la propria cultura, la propria fede e una tradizione gastronomica divenuta simbolo dell’identità del rione. Le ricette ebraico-romanesche sono un patrimonio che si gusta ancor prima di raccontarsi: tra carciofi alla giudia, aliciotti con indivia, fritture e l’immancabile torta di visciole e ricotta del celebre forno Boccione, ogni assaggio è un viaggio nella storia. E se si passa davanti all’antico forno Urbani, è impossibile resistere al richiamo di un trancio di pizza appena sfornata.

Non mancano i monumenti iconici. Il Tempio Maggiore, la grande Sinagoga dallo stile Assiro-Babilonese, veglia sul rione come simbolo di orgoglio e spiritualità. A pochi passi, il Teatro di Marcello – eretto nell’11 a.C. e considerato il prototipo architettonico del Colosseo – parla di un tempo in cui l’arte scenica era parte integrante della vita pubblica. Accanto a esso, il Portico d’Ottavia, unico tra i grandi portici romani giunto fino a noi, rappresenta un ponte tra Roma imperiale e Medioevo. E ancora, la Crypta Balbi, con i suoi percorsi archeologici stratificati, testimonia la continuità della vita urbana nei secoli.

Ma forse è una fontana a catturare l’anima più romantica del rione. La Fontana delle Tartarughe, scolpita tra il 1581 e il 1588 su progetto di Giacomo della Porta, non è solo uno degli esempi più eleganti dell’arte rinascimentale romana: è anche protagonista di una leggenda d’amore. Si racconta che il duca Mattei, ostacolato nelle nozze dal padre della sua promessa, per convincerlo della sua determinazione fece costruire in una sola notte la fontana nella piazza antistante il suo palazzo. Al mattino, fece affacciare alla finestra la ragazza e il futuro suocero per mostrare l’opera compiuta. Colpito dall’audacia e dalla bellezza della fontana, il padre acconsentì alle nozze. Ma il duca, geloso di tanta meraviglia, murò la finestra per impedirne la vista ad altri. Ancora oggi, quella finestra è murata, come silenziosa testimone di un capriccio d’amore che il tempo ha reso leggenda.

In via del Portico d’Ottavia si affaccia anche un edificio singolare: la Casa di Lorenzo Manilio, costruita nel 1468 e decorata con iscrizioni latine e greche. L’abitazione è un omaggio personale alla Roma classica, voluto da Manilio come segno d’amore verso la sua città. “Mentre Roma rinasce all’antico splendore…”, recita l’epigrafe scolpita in facciata. Una dichiarazione d’intenti che sembra riassumere lo spirito stesso del rione Sant’Angelo: una Roma che rinasce ogni giorno attraverso la cura della sua memoria.

Circoscritto da vie dense di storia – da via Florida a via del Teatro di Marcello, da via Margana a lungotevere de’ Cenci – il rione Sant’Angelo conserva un’identità forte, fatta di orgoglio, spiritualità, resilienza e cultura. Il suo stemma raffigura un angelo con un ramo di palma, ma ne esistono altre due versioni: in una, l’angelo brandisce una spada e una bilancia; nell’altra, appare un pesce, richiamo diretto al mercato ittico che un tempo animava il Portico d’Ottavia. Simboli diversi per un solo messaggio: qui, nella parte più antica di Roma, la vita non ha mai smesso di scorrere.