Nel suo sguardo c’è qualcosa che racconta molto più di una semplice carriera sportiva. C’è la determinazione di chi ha sfidato la paura, la nostalgia e l’ingiustizia per costruirsi una nuova esistenza. Hadi Tiranvalipour, atleta iraniano di taekwondo, oggi è diventato il simbolo vivente di una lotta che va oltre il tatami: è la storia di un uomo che ha scelto la libertà, ha pagato il prezzo dell’esilio e ha trovato nello sport la via per rinascere.
Nato il 21 marzo 1998 a Karaj, in Iran, Hadi inizia a praticare taekwondo da bambino, ispirato dalla leggenda iraniana Hadi Saei. Dopo anni di sacrifici, entra a far parte della nazionale iraniana, gareggia nei campionati asiatici giovanili, vince, convince, e si impone anche come volto televisivo, conducendo programmi sportivi e motivazionali.
Ma è proprio in TV che la sua carriera subisce la svolta più drammatica: durante le proteste in Iran, Hadi prende posizione pubblicamente a favore delle donne e dei diritti umani, in un Paese dove parlare può costare caro. Le sue parole non passano inosservate. La sua voce, troppo libera, viene censurata. Viene sospeso dai programmi, allontanato dai media e messo di fatto alla porta da un sistema che non tollera dissenso.
Nel 2022, Hadi è costretto a lasciare il suo Paese. Attraversa la Turchia e giunge in Italia in condizioni estreme, dormendo nei boschi, lavorando come lavapiatti, vivendo per mesi su divani prestati. Nessuna palestra, nessun tatami: solo la forza di non arrendersi.
Ma il fuoco dentro non si spegne. Chiede asilo, si iscrive all’Università di Tor Vergata a Roma, dove frequenta un master in Scienze Motorie, e scrive alla Federazione Italiana Taekwondo. La risposta che riceve cambia tutto: la FITA lo accoglie. Hadi torna ad allenarsi, proprio al Centro Olimpico “Giulio Onesti” dell’Acqua Acetosa, tra i campioni azzurri e con il supporto di chi vede nello sport una possibilità concreta di inclusione.
Nonostante la mancata qualificazione diretta, il Comitato Olimpico Internazionale lo seleziona per il Refugee Olympic Team. È un segnale forte: Hadi è uno dei 36 atleti rifugiati ammessi ai Giochi di Parigi 2024. Gareggia nella categoria -58 kg. Il debutto è difficile, l’eliminazione al primo turno è amara. Ma ciò che conta davvero è il significato di quella presenza: un atleta che fino a poco tempo prima fuggiva da un regime che voleva spegnerne la voce, ora rappresenta milioni di persone invisibili.
“Sono grato, ma non soddisfatto. Il nostro viaggio è stato troppo difficile”, dichiara dopo il match. Parole che pesano, parole che guardano dietro al suo passato e forse ritornano in avanti, verso il futuro.
Oggi Hadi vive a Roma, studia, si allena, sogna. Dopo il master punta al dottorato e intanto si fa portavoce, nei licei e nelle palestre, della forza dello sport come strumento di riscatto. In Italia ha trovato una seconda patria, un luogo dove le sue parole non sono un pericolo ma un ponte verso gli altri.
Ha stretto legami con campioni come Vito Dell’Aquila, ha ricevuto il supporto della comunità sportiva e, soprattutto, ha riconquistato la possibilità di scegliere. “Non sono un fuggitivo, ha detto in un’intervista, sono un atleta, un uomo libero che lotta per una vita migliore”.
In un giorno tragico come oggi, in cui gli Stati Uniti hanno colpito duramente l’Iran con un’azione militare che rischia di innescare una guerra devastante, la storia di Hadi Tiranvalipour risuona con ancora più forza e urgenza. Mentre il mondo osserva con timore il precipitare degli eventi, noi scegliamo di credere in un’altra forma di conflitto: una guerra culturale, fatta di gesti di coraggio, di integrazione, di rispetto per i diritti e di riscatto personale. La battaglia che Hadi combatte ogni giorno sul tatami e nella vita reale è quella che vorremmo vedere prevalere: non quella delle bombe, ma quella della libertà, del dialogo e della dignità umana. Che il suo esempio sia un invito a scegliere la strada della pace attraverso la cultura e lo sport, prima che sia troppo tardi.