


Appena varcata la soglia della galleria, si è assaliti da una strana sensazione: l’atmosfera è quella consueta del vernissage, bicchieri di prosecco, conversazioni fluttuanti, l’occasionale suono di una risata che rimbalza sulle tele bianche delle pareti. Eppure c’è qualcosa di sottilmente dissonante. Le opere esposte sembrano restituire lo sguardo, come se osservassero loro il visitatore. È questo il primo cortocircuito sensoriale ed estetico a cui ci invita Dario Fiocchi Nicolai nella sua nuova mostra: una riflessione lucida e spietata sul rito stesso dell’inaugurazione artistica, su quella sottile ipocrisia che ne è parte fondante, ma di cui raramente ci si rende conto.
L’artista, durante l’intervista rilasciata durante l’evento, ha dichiarato con schiettezza:
“Mi sono ispirato dall’esperienza diretta, essendo io stesso un frequentatore di vernissage. […] Ho notato che molte persone erano più attente a se stesse piuttosto che ai quadri. Questa cosa l’ho trovata curiosa e volevo rappresentarla per dar modo ai visitatori di osservare se stessi in veste di attore piuttosto che di spettatore.”
Ecco il punto: la mostra di Fiocchi Nicolai non si limita a ritrarre una scena, ma la ritorna, la replica, la rivela. L’arte si fa specchio. Il quadro non è più il centro dell’attenzione, ma un contesto, uno sfondo, forse un pretesto per quell’oscura performance narcisistica che è diventata parte del nostro modo di vivere l’arte – e la vita.Le opere in mostra si dispiegano come frammenti di uno stesso atto teatrale: visitatori distratti, sguardi dispersi, cellulari puntati più verso sé stessi che verso le tele. Figure agghindate, intente a posare, dialogare, consumare la serata come un evento sociale piuttosto che estetico. I quadri di Fiocchi Nicolai non giudicano, ma raccontano – e, nel farlo, destabilizzano.
L’estetica pittorica dell’artista si muove fra un figurativo sgranato e un realismo che sembra più emotivo che mimetico. I volti rappresentati non sono quelli di persone specifiche, ma archetipi: l’influencer distratta, il collezionista disinteressato, l’artista ansioso di essere notato, la coppia intenta a farsi un selfie davanti all’opera. C’è un’ironia sottile, ma anche un fondo di malinconia: come se l’atto del guardare fosse diventato, in qualche modo, superfluo. L’opera è lì, appesa al muro – ma nessuno la guarda davvero.
Fiocchi Nicolai afferma:
“In qualche modo rispecchia quella che è la realtà quotidiana, la vita odierna. Questo è uno spaccato interessante della società con cui viviamo noi, perché in definitiva la società dell’apparire è la nostra società, dobbiamo riconoscerlo.”




Una realtà quotidiana anche in questa occasione, che ha visto la partecipazione e la presenza, tra amici ed appassionati d’arte, anche del Cavaliere di Gran Croce Ilario Bortolan, Presidente della Associazione Regina Elena Onlus, della curatrice d’Arte Simona De Pinho, dei giornalisti Sara Lauricella e Francesco Febbraro, dell’attore Alex Partexano, dell’attrice Gaia Zucchi accompagnata dallo scrittore Nicky Marcelli, del prefetto Fulvio Rocco de Marinis accompagnato dalla opinionista Jolanda Gurreri, Antonella Stelitano, Consigliere Nazionale del Comitato Italiano Fair Play, di Paolo Celli, lo Chef dei Divi di Hollywood e del regista Domenico Briguglio. Un parreterre di ospiti illustri assolutamente non omogeneo e variegato nelle aree di interesse che, ancora una volta, dimostra come l’arte possa attrarre, accogliere e diffondere, su piani sociali eterogenei, la bellezza e la soggettività
Nelle parole di Fiocchi Nicolai risiede la chiave dell’intera esposizione: la sociologia della distrazione. Non è solo una questione di superficialità, ma di mutamento strutturale della percezione. Il visitatore, oggi, non va più a vedere un’opera: va a farsi vedere davanti a un’opera. E l’arte diventa uno sfondo Instagrammabile, un palcoscenico temporaneo su cui recitare la propria parte.
Uno dei concetti più suggestivi introdotti da Fiocchi Nicolai è quello di “spettAttore”. È una crasi che riecheggia le teorie di Jacques Rancière e Guy Debord, ma declinata in una chiave molto più quotidiana, quasi pop:
“Lo spettatore diventa anche un attore, da qui il termine spettAttore che caratterizza l’evento.”
È il paradosso del vernissage: luogo nato per celebrare l’opera d’arte, trasformato in uno spazio dove la vera performance è quella sociale. In questo contesto, l’artista si fa regista di una scena collettiva: osserva il comportamento umano, lo trasforma in soggetto pittorico, e lo restituisce al pubblico, che si trova a riconoscersi – o forse a disconoscersi – nei quadri esposti.Il meccanismo è perturbante. Chi guarda una tela di Fiocchi Nicolai può trovarsi a pensare: “Quello potrei essere io.” E in effetti è lui. Il vernissage diventa un gioco di specchi: i quadri rappresentano i visitatori, i visitatori si osservano nei quadri, e l’intero evento si trasforma in una meta-installazione sociale dove il confine fra arte e vita si dissolve. E tra i visitatori intervenuti
Ma veniamo al punto delle opere: dal punto di vista formale, le opere si collocano in un territorio ibrido fra il figurativo e il narrativo. La composizione è spesso caotica, con molteplici figure distribuite lungo la tela in una sorta di danza centrifuga dell’attenzione. Il centro del quadro, se c’è, è vacante: perché l’attenzione del pubblico (e del pittore) è rivolta altrove. Persino il colore sembra seguire questa logica: toni accesi, contrasti volutamente disturbanti, giochi di luce che enfatizzano non l’opera d’arte rappresentata, ma il gesto di chi la ignora.
Si potrebbe parlare di una vera e propria “estetica della disattenzione”: un modo di dipingere che riproduce l’indolenza visiva del pubblico moderno. La pittura di Fiocchi Nicolai è documentaria, ma non didascalica; è narrativa, ma non moralista. Ritrae senza condannare, osserva senza sovrastare.
Tornando alle parole dell’artista, nel corso dell’intervista, Fiocchi Nicolai ha anche chiarito che la sua non è una critica radicale al vernissage, ma piuttosto un invito alla riflessione:
“Non per criticarlo a tutti i costi, ma per dare uno spunto di riflessione e un invito a riflettere su questi aspetti.”
In questo senso, la sua arte si inserisce in una lunga tradizione che da Manet a Cindy Sherman, da Duchamp a Sophie Calle, ha messo in discussione lo statuto dell’osservatore. Ma lo fa con una cifra linguistica contemporanea, accessibile, quasi familiare. I soggetti rappresentati non sono estranei: sono amici, colleghi, follower. Siamo noi.
In un’epoca dominata dal bisogno di documentare ogni esperienza, anche la fruizione dell’arte diventa oggetto di auto-narrazione. Ma cosa accade all’esperienza estetica quando la viviamo solo per poterla raccontare?
L’operazione di Dario Fiocchi Nicolai non si esaurisce nel semplice gesto pittorico. Ogni sua tela è un frammento di un discorso più ampio sulla condizione contemporanea, sull’identità, sull’attenzione, sulla centralità del sé in un’epoca narcisista. La mostra, in ultima analisi, è una grande installazione sociale in cui il pubblico è insieme oggetto e soggetto dell’opera.
Come suggerisce l’artista:
“In un certo senso si può dire che questo evento si sia già tenuto perché in qualche modo si è già conclusa all’interno delle tele. Noi siamo qui come a rendergli omaggio, ad osservarlo e a renderci conto di quello che succede.”
È questa forse la lezione più importante che ci consegna la mostra: che la vera opera d’arte, oggi, non è ciò che vediamo appeso a un muro, ma il nostro stesso modo di stare al mondo. Un’opera di cui siamo tutti protagonisti e, forse, anche critici.





