C’è un momento, nei grandi film, in cui la magia della narrazione incontra il mistero del dietro le quinte. È quello che accade con Amarcord, capolavoro indiscusso di Federico Fellini, in cui ogni fotogramma sembra disegnato con la nostalgia dolceamara dell’infanzia. Ma c’è un dettaglio anzi, un intero finale che, come racconta Alexander Galiano nel suo libro L’importanza di chiamarsi Fellini: Riccardo e Federico, potrebbe non appartenere al regista riminese, ma a un altro Fellini: Riccardo, fratello minore e regista a sua volta.
L’ebook, edito nel 2025 da Bag One, ripropone in versione digitale un’analisi appassionata e meticolosa già pubblicata in formato tradizionale, che porta alla luce il segreto più curioso e forse meno conosciuto di Amarcord: il suo epilogo nuziale, apparentemente fuori tono rispetto al resto del film.
Nel finale de Amarcord, La Gradisca, figura femminile mitizzata per tutta la pellicola, sposa un modesto carabiniere meridionale. Un epilogo apparentemente in contrasto con la sua ossessione per Gary Cooper e l’ideale romantico hollywoodiano. Il tono improvvisamente più realistico, persino dimesso, di quel momento fa suonare un campanello d’allarme. Galiano sottolinea come quella scena non sarebbe stata ideata da Federico, ma suggerita e ispirata da Riccardo Fellini, che nel 1963 aveva debuttato come regista con Storie sulla sabbia.
La scena del matrimonio, nella sua semplicità visiva e nella sua malinconia sospesa, ricalcherebbe infatti in modo quasi sovrapponibile il finale del film del fratello minore: un’ambientazione marina in anticipo di primavera, una tavolata improvvisata, abiti modesti, un musicista vagabondo e bambini vocianti, il tutto ammantato dalla stessa vena di lieve tristezza.
Un finale “posticcio”?
Galiano si spinge oltre e, confrontando i due finali, ipotizza che quella scena sia stata girata in extremis, forse a sostituzione di un epilogo originario mai completato. Un’ipotesi che trova ulteriore credito nella scenografia povera e decisamente sottotono rispetto all’opulenza visuale del resto del film, curato dal maestro Danilo Donati. È come se, proprio lì, Fellini avesse abdicato al suo immaginario visionario per affidarsi a una chiusura più sobria, quasi un omaggio fraterno, o forse un compromesso produttivo.
E allora viene da chiedersi: chi ha davvero firmato l’ultima immagine di uno dei film più celebri del Novecento? Quanto c’è del fratello Riccardo nel congedo di Amarcord?
Il titolo stesso del film, nato dalla crasi romagnola a m’arcord (“io mi ricordo”), è diventato nel tempo un neologismo della lingua italiana, simbolo di un’epoca e di una poetica in cui il ricordo si fa cinema. Ma il ricordo – suggerisce Galiano – non è mai del tutto oggettivo. Cambia, si sfuma, si reinventa. E anche il finale di Amarcord, visto con questi nuovi occhi, diventa memoria filtrata, immagine contaminata, forse persino affetto fraterno trasposto in pellicola.
Con la versione digitale, Bag One riporta all’attenzione del pubblico un saggio che coniuga rigore critico e passione cinefila, rendendo “L’importanza di chiamarsi Fellini” una lettura imprescindibile per chi ama il cinema non solo per ciò che mostra, ma per tutto ciò che resta fuori campo. E anche per chi, dopo aver visto Amarcord decine di volte, oggi è pronto a chiedersi, con un sorriso, se davvero quella sposa malinconica fosse un personaggio di Federico… o di Riccardo.