C’è una lingua che vibra sotto la pelle, un dialetto che è corpo e memoria, che esplode sul palcoscenico e si fa carne viva: è quella di Davide Enia, che fino al 1° giugno torna a calcare la scena del Teatro India di Roma con il suo nuovo, potentissimo lavoro: “Autoritratto”. Un titolo che non inganna: è un’indagine sulla propria identità, certo, ma è anche un atto collettivo, una riflessione profonda e dolorosa su una Sicilia, ed in particolare su Palermo, che per trent’anni ha convissuto con la morte, la paura, la rimozione, la mitizzazione. La mafia, Cosa Nostra, non come entità astratta ma come spettro concreto, compagno invisibile e invadente della quotidianità.
Enia torna con uno spettacolo che non è né fiction né semplice testimonianza: è tragedia, è orazione civile, è psicanalisi scenica. Parte da una data che per molti italiani è impressa nella carne viva della memoria: 23 maggio 1992, l’attentato di Capaci, l’uccisione di Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo e degli agenti della scorta. Una deflagrazione che ha cambiato la storia del Paese, e che per Enia, come racconta nelle sue note di regia, ha lasciato un buco nero nella memoria, una rimozione totale, come se il trauma collettivo avesse agito da barriera personale.
Ma “Autoritratto” non si ferma alla cronaca o alla commemorazione. Enia affonda le mani nella materia incandescente della nevrosi siciliana nei confronti della mafia. Una condizione psicologica e culturale sedimentata in secoli di relazioni di potere, silenzi imposti, strutture familiari verticali, obbedienze cieche, linguaggi taciuti. «Da noi la mafia è stata minimizzata, sottostimata, banalizzata, rimossa o, al contrario, mitizzata», dice l’autore in scena, raccontando come ogni gesto quotidiano, ogni relazione, perfino il modo di guardare qualcuno per strada, possa diventare un atto carico di significati mafiosi, di tensioni latenti, di violenza mimetica.
Il punto più atroce del racconto arriva quando Enia si sofferma sul caso di Giuseppe Di Matteo, il bambino figlio di un collaboratore di giustizia, tenuto ostaggio per 778 giorni, in condizioni inumane, strangolato e poi sciolto nell’acido. È uno spartiacque morale, un punto di non ritorno nella storia della mafia e nel modo in cui l’opinione pubblica ha iniziato ad affrontare la brutalità di Cosa Nostra. Ma anche qui, Enia non si limita al fatto: lo trasforma in materia teatrale, scavando nelle implicazioni emotive, nella discesa agli inferi dell’anima siciliana, nella costellazione del lutto che accomuna tutti i palermitani.
Perché, come dice l’attore-autore-regista, in Sicilia «tutti abbiamo pochissimi gradi di separazione con Cosa Nostra». Tutti conoscono qualcuno che è morto ammazzato. Tutti hanno camminato accanto al Male, e in qualche modo lo hanno dovuto normalizzare. In una società dove «’a megghiu parola è chìdda ca ’un si dice», il silenzio diventa codice, l’omertà prima ancora che comportamento è grammatica affettiva. E allora “Autoritratto” non è solo un esercizio di memoria, ma un tentativo di rompere il silenzio, di nominare ciò che per troppo tempo è stato taciuto, nascosto, rimosso.
Con un linguaggio che alterna cunto e dialetto, gestualità e narrazione asciutta, Enia costruisce un’esperienza che va oltre il teatro. È testimonianza viva, è ferita aperta, è atto d’accusa e tentativo di salvezza, tutto in uno. La scena si trasforma in un confessionale collettivo, in cui il pubblico è chiamato non a giudicare, ma a riconoscersi, a domandarsi: qual è la mafia dentro di me? Dove si annida, in quali gesti, in quali silenzi, in quali codici familiari o sociali?
Ed allora il teatro diventa l’unico luogo possibile per dire, finalmente, ciò che per troppo tempo è rimasto indicibile.