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Moby Dick al Teatro Quirino: il viaggio oscuro dell’anima tra ossessione e redenzione negata

Fino al 13 aprile 2025, il Teatro Quirino di Roma si trasforma in un oceano di simboli, abissi interiori e tempeste morali grazie a “Moby Dick”, l’intenso adattamento teatrale del capolavoro di Herman Melville, firmato da Micaela Miano e portato in scena con la regia visionaria di Guglielmo Ferro. A dare voce e corpo al tormentato capitano Achab è Moni Ovadia, affiancato da Giulio Corso nel ruolo del primo ufficiale Starbuck, in un duello scenico che è anche una vertiginosa discesa nei recessi più oscuri dell’animo umano.

Lontano da ogni rilettura semplicistica, questo Moby Dick non è la storia di una caccia, ma una vera e propria tragedia metafisica, dove la balena bianca non è soltanto un animale leggendario, ma una condanna, un simbolo, un’assenza che lacera. Il Pequod, vascello condannato e infestato da fantasmi morali, diventa un non-luogo tra il sacro e il profano, teatro di un conflitto senza tempo tra l’ossessione cieca e la voce della coscienza.

Achab, con il volto segnato e la voce potente di Moni Ovadia, è l’uomo che sfida Dio e la sorte, colui che trasforma il dolore in furia e la vendetta in missione mistica. Un moderno Prometeo, empio e irredimibile, che rinnega ogni ordine superiore pur di compiere la sua vendetta. Starbuck, alter ego e antitesi, è la bussola morale che cerca invano di fermare la deriva: portavoce di una visione teocentrica, osserva con sgomento l’inabissarsi dell’umanità nella follia.

La scena – concepita come una sinfonia visiva e sonora – si snoda tra canti di marinai, tempeste feroci, riti pagani, bonacce irreali e battute di caccia cariche di tensione, in un alternarsi continuo di realtà e delirio. La ciurma, composta da personaggi iconici come Queequeg, Pip, Ismaele, Tashtego, Stubb, Daggoo, Fedallah, sembra essere sospinta verso l’inevitabile, come chiamata da un patto mefistofelico sancito dal doblone d’oro sull’albero del Pequod.

Il vero centro emotivo della narrazione non è tanto l’avvistamento della balena, quanto il conflitto tra Achab e Starbuck, due polarità dell’essere umano che si riflettono l’una nell’altra come in uno specchio che si incrina lentamente. In questa lettura, Starbuck diventa la manifestazione clinica della malattia di Achab, l’uno è la ferita aperta, l’altro il dito che vi preme sopra.

Non c’è salvezza sul Pequod, né possibilità di ritorno: il viaggio è un’epopea verso la distruzione, dove la balena non è più il nemico ma un’immagine del peccato originale, un enigma che assorbe e divora. “Una balena bianca in un abisso nero. E poi lo specchio si crepa”, recita una delle suggestioni più potenti dello spettacolo, a sottolineare la frattura irrimediabile tra l’uomo e la sua parte più profonda.