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Roma, l’amaro di Bergamo: quando la Champions sfugge anche per colpe non tue

foto esterna: AS Roma

Non è soltanto una sconfitta, quella maturata dalla Roma al Gewiss Stadium, ma una ferita aperta, difficile da rimarginare. Una di quelle serate che non fanno curriculum ma scavano dentro, perché parlano di sudore sprecato, di rabbia repressa e, soprattutto, di un senso di giustizia sportiva tradita. La squadra di Claudio Ranieri esce battuta da Bergamo, interrompe una striscia d’imbattibilità che durava da diciannove partite e si allontana, nel momento decisivo, da quel quarto posto che vale la Champions League. Ma a pesare non è solo il risultato: è il modo in cui è maturato, il veleno di una partita che la Roma aveva provato a vincere e che ha rischiato persino di far sua.

Il fallo – chiamiamolo così, con tutte le cautele del caso – di Pasalic su Koné, diventato il centro di una polemica che scuote l’asse Roma-Milano, si presta a essere il simbolo di quanto accaduto. Fischiato in campo, cancellato poi al monitor. Il rigore che c’era e poi non c’era più. Il punto d’inizio dello sfogo durissimo di Ranieri, di un allenatore che per mesi aveva evitato il teatro delle lamentele arbitrali ma che stavolta non è riuscito a contenersi. Le sue parole, pronunciate a caldo, non sono lo sfogo di un tecnico sconfitto: sono un atto d’accusa preciso, rivolto a un sistema che continua a navigare tra interpretazioni variabili e protocolli applicati a intermittenza.

“Come fate a dire che non è rigore?” ha tuonato Ranieri, inchiodando alla responsabilità non solo l’arbitro Sozza ma anche la direzione VAR. Il contatto tra Pasalic e Koné, coscia contro coscia, non è plateale ma c’è. E secondo logica, regolamento alla mano e anche una certa dose di buon senso, quel tipo di intervento è tale da impedire la progressione di un attaccante lanciato verso la porta. Di fronte a tutto questo, resta la domanda più semplice e al tempo stesso più inquietante: perché il VAR è intervenuto? L’arbitro aveva visto e deciso. E allora perché cambiare, se non per un errore clamoroso, evidente, oggettivo? Dov’è finita la coerenza applicativa?

La Roma non ha giocato una partita perfetta, ha certamente le sue colpe. Ha avuto occasioni per segnare, per chiudere, per fare male. Ma ha anche avuto cuore, carattere, volontà. Non è uscita con le mani in tasca, e questo fa ancora più male. A due giornate dalla fine, resta incollata al treno Champions, a un solo punto da Juventus e Lazio, ma con la consapevolezza che il margine d’errore è ormai inesistente. Servirà vincere, sperare, e forse anche pregare. Perché il sospetto, mai sopito in certi ambienti, è che nei momenti chiave le decisioni arbitrali possano ancora orientare le sorti della classifica.

In fondo, viene naturale ripensare a José Mourinho e a quella famosa presa di posizione contro il sistema arbitrale nel 2022. All’epoca fu bollata come esagerata, teatrale, propagandistica. Ma forse, oggi, quel malumore trova nuova legittimità. Ranieri non è uomo da polemiche gratuite, e se ha alzato la voce è perché qualcosa si è rotto. O forse non è mai stato davvero integro.

Il problema non è solo un rigore tolto. È la credibilità di un campionato che si gioca anche nelle sfumature, tra decisioni che un giorno valgono e il giorno dopo no. È il diritto di chi lotta fino all’ultimo metro di sentirsi trattato con equità.