La cronaca giudiziaria irrompe spesso in modo brutale nel dibattito pubblico, ma vi sono episodi che superano persino la soglia dello sconcerto e assumono un valore simbolico capace di scuotere un intero sistema
Bastano poche righe di un giornale, un titolo studiato per catturare l’attenzione, il volto di un medico estratto dai social, per determinare un terremoto istituzionale che affonda le radici nella fragilità del Servizio Sanitario. È sufficiente la notizia di una presunta mazzetta, appena tremila euro consegnati in un incontro fulmineo dentro un’automobile, per far vacillare la fiducia che faticosamente si tenta di ricostruire.
Un arresto in flagranza diventa così la miccia che accende un incendio difficile da domare, perché la percezione dell’opinione pubblica corre più veloce delle indagini e si alimenta di sospetti, frasi fatte, indignazione immediata.
La vicenda sembra scritta per alimentare una narrazione perfetta. Uno, nessuno, centomila. “Uno” è il primario al centro dell’indagine, quello che alcuni giornali avevano celebrato come un professionista brillante, quasi una rockstar della medicina, figura carismatica capace di sintetizzare eccellenza e notorietà, ma anche egocentrismo e narcisismo intesi come atteggiamenti personali e non patologici. “Nessuno” è ciò che resta quando l’immagine crolla, quando la certezza di un ruolo sociale riconosciuto si dissolve in un istante, quando un sistema perde ulteriori frammenti della propria identità. “Centomila” sono invece le immagini, le attività, i volti, i reparti, le relazioni quotidiane che compongono la vasta galassia del Servizio Sanitario e che, senza alcuna colpa, pagano lo scotto morale e simbolico di un singolo.
Il terremoto istituzionale inizia da un epicentro minuscolo, un uomo solo, e si propaga come un’onda sismica che investe i reparti, gli ambulatori, le sale d’attesa, le direzioni sanitarie ma anche gli uffici amministrativi e soprattutto la direzione. È un sommovimento che non distrugge strutture fisiche, ma erode lentamente quella fiducia pubblica costruita con fatica, carenze di personale, criticità organizzative, riduzione dei fondi e un bisogno crescente di servizi, di una sanità che lotta ad adeguarsi al modificarsi della popolazione e di cui proprio questa ASL ne è il manifesto virtuoso. Ogni giorno migliaia di operatori combattono una battaglia silenziosa fatta lavoro, ricerche, spostamenti, burocrazia che rallenta invece di aiutare, un puzzle complicatissimo che richiede precisione e dedizione incrollabile per essere completato. Eppure tutto sembra svanire in un lampo, sostituito da una percezione cupa e radicata che ritorna puntuale come un’eco tra la gente: “non è cambiato niente”.
Nell’immaginario collettivo, tremila euro diventano un simbolo. Un valore minimo, eppure quanto basta per logorare la credibilità di un’intera categoria.
Mentre gli inquirenti attendono di ricostruire la vicenda, di analizzare intercettazioni, verificare testimonianze e chiarire se quel gesto rappresenti un reato o un malinteso, il tempo mediatico scorre a velocità doppia. I cittadini reagiscono con amarezza, con un fatalismo che riporta in superficie un’antica sfiducia, con la sensazione che la sanità stia cambiando e che a cambiare siano anche le persone che la percorrono ogni giorno.
Migliaia di lavoratori impegnati a costruire, innovare, migliorare i servizi si ritrovano improvvisamente schiacciati dall’ombra lunga di un’indagine ancora in fasce, mentre l’unico che non cambia è proprio colui che attende, tra le sbarre o in una cella di sicurezza, che qualcuno decida se la sua libertà potrà restare sospesa o recuperata.
L’intero sistema sanitario attende risposte. Per ora le informazioni provengono esclusivamente dai giornali, spesso costretti a rincorrere anticipazioni, ricostruzioni parziali, dettagli frammentati che non possono sostituire la verità processuale.
Servono prove, chiarimenti, contesti, perché solo attraverso la conoscenza accurata dei fatti si possono costruire argini credibili e stabilire correttivi efficaci, impedendo che un episodio isolato diventi un fiume incontrollabile che travolge ogni percezione pubblica.
La violenza dell’acqua, di fronte ad una diga costruita con la buona sanità, corrisponde alla violenza della percezione, a quel “È tutto un magna magna” che riesplode nei bar, nelle cucine affollate delle domeniche in famiglia, nei corridoi di chi attende visite e cure, nei racconti quotidiani di chi, suo malgrado, dipende dalla sanità per sopravvivere.
Per i pazienti della nefrologia, in realtà, l’unica differenza immediata è spesso l’indirizzo della struttura a cui vengono indirizzati. La terapia non cambia, l’assistenza rimane, la qualità resta affidata a migliaia di professionisti che ogni giorno garantiscono prestazioni fondamentali. Solo che, a loro insaputa, sono diventati banconote, merce con un valore da portare su un banco o l’altro di un mercato deviato.
Eppure, la fiducia è un bene fragile e complesso, un equilibrio che nasce nel rapporto tra medico e paziente, un legame che parte dai medici di famiglia e prosegue in ogni livello del percorso di cura. Anche questo equilibrio può spezzarsi con un colpo di spugna, con una foto rubata dai social, con un articolo dettagliato sulle banconote consegnate in una vettura parcheggiata sulla Colombo, con il racconto cinematografico che spesso la cronaca giudiziaria porta con sé.
Due persone, sulle oltre centoventimila che esercitano la professione medica in Italia, rappresentano lo 0,00167 per cento. Due persone su più di sessantatremila lavoratori della sanità pubblica del Lazio equivalgono allo 0,0032 per cento. Una statistica insignificante sul piano numerico diventa invece gigantesca sul piano narrativo, perché il lavoro silenzioso di 62.999 operatori viene oscurato da una fotografia sgranata e venti righe d’inchiostro. È un racconto che troverà spazio nelle trasmissioni televisive d’inchiesta, che di inchiesta avranno ben poco, perché si limiteranno a cavalcare l’onda del momento, a reiterare indignazione e sospetto.
Occorre essere chiari. La responsabilità, se accertata, sarà di un singolo e, se vi fossero complici, di poche altre persone. Il reato potrà essere confermato solo in un’aula di tribunale, non tra le righe di un articolo né in un commento lanciato sul marciapiede nelle ore più fredde del giorno. Il Servizio Sanitario Nazionale non ha colpe. È stato sorpreso, ferito, destabilizzato come lo siamo stati tutti. La sanità regionale, provinciale e locale resta vittima di un evento imprevisto, un cavallo di Troia che si annida nelle pieghe della fiducia interna e si manifesta quando meno lo si aspetta.
La politica non c’entra. Attribuire responsabilità a questo o a quel partito significa cedere alla tentazione di sfruttare la fragilità di un sistema per tornaconto personale. Chi lo farà inseguirà l’occasione di qualche voto futuro, comportandosi come uno sciacallo che approfitta della sofferenza altrui per alimentare la propria visibilità. È un gioco pericoloso, perché la salute è un bene comune e appartiene a tutti i cittadini. La sanità ha bisogno di compattezza, di sostegno, di un clima che favorisca la ricostruzione della fiducia, non di un’arena in cui contendersi un pezzo di notorietà politica.
L’episodio, in tutta la sua gravità, deve essere ricondotto alla dimensione reale. Un fatto giudiziario ancora in evoluzione, un’indagine che necessita di tempo, un’accusa che può trasformarsi in condanna o dissolversi in archiviazione. Nel frattempo, il Servizio Sanitario Nazionale continua a vivere, lavorare, curare, sostenuto dalla forza quotidiana di chi, lontano dai riflettori, ricostruisce la fiducia con gesti concreti, con professionalità e con un impegno che nessuna mazzetta, vera o presunta che sia, potrà mai cancellare davvero.
