Stadio Flaminio nella neve

Stadio Flaminio nella neve

Marco Impiglia ci spiega la Storia dello Stadio Flaminio di Roma dai fasti delle olimpiadi del 1960 al degrado odierno.

La palestra di pugilato con le “cavalle”
La palestra di pugilato con le “cavalle”

C’è un mostro biblico che riposa, nel cuore della nostra città a due passi da piazza del Popolo. Si chiama “Stadio Flaminio” ed è un mostro buono, che non ha nulla a che vedere con Cromwell e Hobbes ma molto è legato all’ingegner Pier Luigi Nervi, che lo immaginò e ce lo consegnò per i Giochi Olimpici del 1960. L’idea del Leviatano, del grande animale marino addormentato, mi sovvenne nel 2006, quando il mitico Teofilo Stevenson condusse la nazionale di boxe cubana ad allenarsi in una delle palestre che stanno nella pancia dell’impianto. Vidi i giovani ragazzi antillani sgranare gli occhi meravigliati, guardando in su verso le “cavalle”, i costoloni di cemento armato che salgono e fanno credere di stare dentro il ventre steccato della balena di Giona. Pure Muhammad Alì vi si allenò, durante i Giochi, e poi Nino Benvenuti, Carlos Monzon e tanti altri fuoriclasse del ring, che redigerne qui la lista sarebbe noioso.

 

La bilancia del peso della Boxe  come si presentava in tempi recenti. Foto di M. Impiglia.
La bilancia del peso della Boxe come si presentava in tempi recenti. Foto di M. Impiglia.
Il Flaminio la notte della finale olimpica Jugoslavia-Danimarca. Tratto dal libro Immagini della XVII Olimpiade, 1960
Il Flaminio la notte della finale olimpica Jugoslavia-Danimarca. Tratto dal libro Immagini della XVII Olimpiade, 1960

Ma, a parte la boxe, la ginnastica, la scherma, il sollevamento pesi, la lotta e le arti marziali, la piscina coperta e riscaldata per le nuove leve di nuotatori, il senso di tutto era che nel 1957 si voleva uno stadio a misura di pallone; adatto per il Campionato non solo nel periodo in cui l’Olimpico fosse stato indisponibile causa Roma ‘60, ma anche e soprattutto dopo. Inoltre, lo “Stadio Tiziano” – questo fu il nome provvisorio – doveva ospitare vari match del torneo olimpico. Gli “azzurrini”, allenati da Nereo Rocco e Gipo Viani – i Rivera, Bulgarelli, Burgnich, Trapattoni –, non ebbero fortuna e in semifinale furono eliminati dalla Jugoslavia; ma con la monetina. Al termine dell’1-1 e dei 120 di gioco, l’inglese sir Stanley Rous, presidente della commissione di arbitraggio, mise nel cappello del dirigente napoletano Coppola, ministro degli esteri del calcio italiano, due bigliettini con i nomi delle squadre. Alla presenza dell’arbitro germanico Kandlbinder e dei capitani, in una maniera molto informale Rous estrasse il biglietto recante la scritta: Yugoslavia.  Maurizio Barendson, il giorno dopo intitolò il suo articolo in cronaca con l’azzeccatissima frase: De Coubertin nel cappello! Miglior commento al sogno infranto del presidente della FIGC, Umberto Agnelli, di vincere un oro olimpico stando alla testa di un movimento di puri professionisti, non si sarebbe potuto trovare. La finale poi gli slavi se la aggiudicarono contro i danesi.

In effetti, il nome “Flaminio” il CONI lo coniò solo nel gennaio del 1958. L’inaugurazione avvenne il martedì del 18 marzo 1959, presenti il capo del Governo, Antonio Segni, il sindaco di Roma, il democristiano Urbano Cioccetti, il presidente del CONI Giulio Onesti, l’ubiquo Giulio Andreotti, capo dell’organizzazione olimpica, e altri personaggi politici e religiosi, non ultimo monsignor Cunici che benedisse le mura. L’indomani si giocò un’amichevole tra una rappresentativa dilettantistica italiana e una olandese. Dopo la Grande Olimpiade, trasferitesi tutte le federazioni nei due palazzetti sorti a viale Tiziano, per un paio d’anni volteggiarono nella palestra di ginnastica i campioni della Associazione Ginnastica Romana, e tra essi Franco Menichelli, che nel 1964 strappò l’oro nella specialità corpo libero a Tokio, meritandosi l’appellativo di “angelo azzurro”.  Poiché c’erano le bellissime palestre, vi presero sede diversi comitati federali e qualche sodalizio favorito dalla sorte, citiamo il Centro Ginnastica Roma. Quindi, in anni più recenti, associazioni come le Fiamme Oro Lotta, la Romana Scherma e la Boxe Flaminio, in condominio con il comitato regionale della Federazione Pugilistica. Come storico ufficiale della FPI, frequentavo la vecchia palestra di boxe, nipotina della prima palestra dei tempi dello “Stadio Torino”. Per cui rammento pezzi da museo che chissà dove sono andati a finire, magari nel garage di un furbo rigattiere: manubri di ferro dell’era di Chicchennina, punch-ball di pelle di dinosauro e una bilancia da pavimento, forse calcata dallo stesso Cassius Clay. 

Cassius Clay al peso per un match olimpico
Cassius Clay al peso per un match olimpico

E il pallone? Entrò al Flaminio non con il super-calcio della serie A, bensì con quello della Serie C della Tevere Roma e della Serie B con la

Locandina del Corriere dello Sport 22 ottobre 1960

‘Lazietta’. Le aquile biancazzurre rimasero nello stadio tipico della cadetteria per alcuni anni, e quando riemersero al proscenio della A si riannidarono all’Olimpico, che aveva la capienza e i parcheggi per le auto che al fratello minore mancavano. Negli anni ’70 vi mise le tende la Rugby Roma, che mi pare si chiamasse Algida.

Corriere dello Sport 21 febbraio 1961
Corriere dello Sport 21 febbraio 1961

Pure la nostra Nazionale, tessuta di illiri e marsicani robusti e biondicci, vi perse alcuni match, uno con la Francia di sicuro.  Gli anni ’80 furono quelli del rilancio. All’epoca, lo stadio teneva 36.000 spettatori. Dino Viola nel 1983 buttò là l’idea di una completa rifondazione, e il suo sogno era un bel Maracanà da 130.000 posti tutti a sedere. La proposta non andò in porto, per cui arrivò la Lodigiani ad esibirsi nel suo girone di C2.

Il centravanti della Lazio Giancarlo Morrone in gol al Flaminio col Novara, 27-9-67
Il centravanti della Lazio Giancarlo Morrone in gol al Flaminio col Novara, 27-9-67

I biancorossi usarono il Flaminio fino al 1989, quando i lavori di rifacimento dell’Olimpico per i Mondiali ’90 ricondussero giallorossi e biancocelesti a giocarvi i loro turni di campionato. Sta nell’aneddotica un derby 1989-90, con fumogeni, biglie di ferro e sprangate nell’erba e sugli spalti, e il tedesco Rudy Voeller che decise tutto, davanti ad un estasiato piccolo Totti che ricevette un imprinting alquanto severo.

2.	Rudy Voeller esulta dopo il gol nel derby del 18 marzo 1990
Rudy Voeller esulta dopo il gol nel derby del 18 marzo 1990

Così, possiamo dirlo, anche il ‘Francesco’ più famoso a Roma dopo il papa ha il cuore tanato al Flaminio. Gli Ottanta delle cicalate furono pure gli anni delle band rock internazionali. Tra il 1987 e il 1988 suonarono gli U2, i Duran Duran, gli Spandau Ballet, David Bowie, Prince, Michael Jackson e perfino i Rolling Stones, nel luglio del 1990 sull’onda lunga del Mondiale.

Lo sport ebbe comunque e sempre la poltrona d’onore. Il calcio in primis: la Lazio in Coppa Italia, le finali della Lega Dilettanti, la Lodigiani-Cisco, l’Ostia Mare, il Tor di Quinto, il Pomezia, l’Atletico Roma. Una normativa FIFA vietò i posti in piedi per il calcio professionale, motivo per cui diverse aree del Flaminio furono convertite in file di poltroncine di plastica e la capienza calò a 24.000.

Poco per il generoso football dei milionari, ma sufficiente per manipoli di gladiatori di football americano, per ospitare l’apertura delle Maccabiadi, il circo Red Bull delle moto da cross, e massimamente il rugby.  È del 1988 la prima finale scudetto al Flaminio, protagoniste Rovigo e Treviso. Nel 2000 la Rugby Roma vi vinse la sfida decisiva con l’Aquila per aggiudicarsi il titolo, una battaglia memorabile cui presenziarono 15.000 spettatori.  Poi il colpo di teatro del Six Nations.

Nel gennaio del 1998, inglesi, scozzesi, gallesi, irlandesi e francesi decisero che gli italiani erano pronti per entrare nel loro centenario torneo, il Cinque Nazioni. Così, noi romani assistemmo alle invasioni cicliche di frotte di alti veneti, accompagnati da patrioti indigeni, più i baldi supporter delle Highlands in gonnella e cosciotti bianchi, e tutti insieme pacifici a cantare l’Inno di Mameli, a gonfiare le cornamuse, impanzarsi di birra, deambulare allegri nei paraggi del vecchio stadio sbreccato. Il 4 febbraio del 2000, il XV azzurro festeggiò l’esordio superando la nazionale di Scozia.  In seguito, sempre nei mesi classici e cioè febbraio-marzo, si svolsero molti altri match all’insegna del fair play e del ‘terzo tempo’; sui giornali il Flaminio divenne “lo stadio del Rugby”.

Italia-Scozia del Sei Nazioni 2005. Foto di M. Impiglia
Italia-Scozia del Sei Nazioni 2005. Foto di M. Impiglia

Furono innalzate gradinate supplementari con strutture tubolari, gli spogliatoi e la tribuna coperta subirono un restyling.  Un barbone dell’est, che da tempo abitava dentro lo stadio (sciorinava tranquillo i panni sulle ringhiere), venne sloggiato. Il presidente della FIR totanbot gironzolò in grosse Jaguar, uno dei ricchi sponsor del torneo. Ma, infine, il presidente suddetto tuonò che voleva qualcosa di meglio. Il 12 marzo 2011, con una miracolosa vittoria 22 a 21 sulla Francia, gli azzurri della palla ovale diedero l’addio al Flaminio. L’Olimpico venne accettato come naturale sostituto.

Il resto è attualità triste. Al volgere del 2011 c’è stata la dismissione da parte del CONI, che aveva dato la sua delega per la gestione alla FIGC e alla FIR. L’impianto è tornato di competenza del Comune, che l’ha lasciato nell’incuria più totale per via dei costi annui di mantenimento: circa un milione di euro; così almeno mi disse in confidenza il custode nel luglio del 2013 quando feci una ricognizione. All’epoca, si parlò vanamente di un bando internazionale per il restauro, la commissione presieduta da Renzo Piano. Sul web, circolano ancora articoli sul tipo: «Allarme Flaminio, gli eredi di Nervi: Stadio in rovina», oppure: «I tifosi della Lazio lo vogliono, Lotito no».

L’ingresso alla palestra di atletica pesante quando era in gestione alle Fiamme d’Oro nel 2013, con l’impianto già in una fase di inarrestabile degrado.
L’ingresso alla palestra di atletica pesante quando era in gestione alle Fiamme d’Oro nel 2013, con l’impianto già in una fase di inarrestabile degrado. Foto di M. Impiglia.

Dal 2018 è passato sotto la tutela delle Belle Arti. D’altronde, dal 2008 l’area è divenuta off-limits alle speculazioni edilizie, per via della necropoli romana del primo secolo avanti Cristo scoperta nel corso di scavi effettuati dalla Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici. I Nervi, padre e figlio, già nel 1957 si erano accorti di quelle ossa antichissime che spuntavano dal sottosuolo, e tuttavia avevano ordinato di proseguire con le fondamenta senza avvertire le autorità competenti.

Oggi nel 2021 solo droni “accreditati” sorvolano, ronzanti, lo Stadio Flaminio. Nessuno ci entra più. Il campione famoso della nazionale di rugby non si apparta un attimo durante gli allenamenti per pisciare sul prato, come pure mi capitò di vedere. Si dice di una possibile ristrutturazione a breve termine.  Il prof. Giovanni Caudo, presidente del III Municipio, avanza l’idea di dedicarlo allo sport giovanile e di collegarlo all’Auditorium Parco della Musica. E vada allora alla gioventù, e vi suonino gli ottoni e si armeggi con i violoncelli, per Diana! 

L’arena “a misura d’uomo” che è un gioiello dell’architettura mondiale del Novecento.  Il Leviatano dormiente su una Città dei Morti di duemila anni fa. Il Paradiso Perduto dello sport capitolino.