foto: LazioWiki

Sabbato ar colosseo di Marco Impiglia

Note storiche, sociologiche, filosofiche e ”psichiatriche” sui sostenitori della AS Roma e della SS Lazio. L’analisi originale di Marco Impiglia.

 


4. IL TIFO CAMBIA (1968-1989)

I giovani conquistano le curve degli stadi

Nei giorni scorsi, chiacchierando con l’amico Fabio Bellisario, architetto del Trionfale col vizio della Lazio, sono venute fuori le memorie di un tifo che ancora resisteva al limitare dei ’60; una maniera di vivere le partite di pallone che, in piccola misura, ho condiviso anch’io. “Sai, si andava in Curva Sud ai derby con i tifosi biancazzurri e giallorossi che stavano gli uni accanto agli altri. Il pericolo del litigio poteva arrivare solo da circostanze che esulavano dal risultato del campo o dalla politica: questo posto è mio e non è tuo, stringiti un po’; lo sgocciolare degli ombrelli sulle gambe o sul collo, se non avevi comprato l’impermeabile usa e getta di plastichina trasparente; magari il tipo sovraeccitato che ti si alzava in continuazione davanti, per cui ti perdevi l’istante in cui la palla gonfiava la rete. Anche l’apparato scenografico delle sfide più attese, ad esempio un Lazio-Napoli, era appagante e scevro da ogni esagerazione o violenza premeditate. Ricordo i sostenitori partenopei che scendevano alla stazione Termini tenendo al guinzaglio un vero ciuccio, l’emblema amatissimo della loro squadra. In corteo, il quadrupede, bardato e infiocchettato con i corni rossi scaccia jella e i campanelli d’ottone, scendeva lentamente lungo via Nazionale e tutti i passanti l’ammiravano; ci poteva scappare al massimo un ‘alimortacci’, ma scherzoso: ve ne famo quattro oggi!”.

Il vecchio tifo anni ’50 e ’60 che tracima negli anni ’70: Luciano il trombettiere laziale del Flaminio e una scommessa da pagare…

“La partita era una festa, ci si andava vestiti come a teatro, famiglie intere. Al piazzale della stazione si prendeva il bus speciale D, che stava per domenica. Una volta dentro lo stadio, si godeva l’evento sportivo serenamente e in democratico dialogo, qualche tamburo o tromba risonanti, il gracchiare delle raganelle, qualche petardo che bucava il mormorio compatto dell’attesa, l’imprecazione per il gol mancato o subito. Ma senza teppisti, fumogeni e fumati, cariche di celerini, spranghe alzate e sanpietrini volanti. Finito lo spettacolo, si organizzava il funerale simbolico alla squadra battuta, si pagavano goliardicamente le scommesse perdute. C’erano i commenti tecnici tra amici al bar. Le feste a piazza del Popolo e a piazza Venezia. Poi tutto improvvisamente mutò…”.

… un funerale alla Lazio e uno alla Roma (il famoso gol di Nanni che fece andare in puzza Helenio Herrera).

Per gradi, direi io. Giacché nulla cambia dall’oggi al domani, e nemmeno Benito Mussolini divenne il “duce” con la testa rapata a zero totanbot: prima si mise la marsina e la bombetta. Ci sono due o tre snodi da tenere in considerazione. Il primo è la ribellione generazionale che si avvia nella seconda metà degli anni sessanta. Più pertinenti ancora, sono due accadimenti che sconvolgono il mondo ASR: nel febbraio del 1967 il sodalizio si trasforma in società per azioni. Così si chiude per sempre l’era dei 4000 soci vitalizi e dei consigli direttivi affollati di individui che restavano all’opposizione fino a quando le loro ambizioni di ricoprire cariche non venivano soddisfatte; un malgoverno imperversante dal dopoguerra. Arrivò da Milano, sotto la presidenza del “paparosso” Alvaro Marchini, che nel ’69 lanciò anche un “azionariato popolare”, un certo Helenio Herrera. Il Mago, espertissimo nel mantenersi a galla manipolando le masse (un po’ come Mourinho), con le sue scalmane provocò l’uscita di Marchini a favore del rivale palazzinaro Gaetano Anzalone. HH convinse Anzalone che occorreva una rete di club di tifosi come avveniva al nord. Sul finire del 1971, in un momento in cui c’era una base di sei, sette circoli, Anzalone inviò a Milano e a Torino un suo sottoposto, Renato Faitella, per studiare la cosa.

Renato Faitella fonda l’AIRC al centro Giulio Onesti del CONI. Il capitano Agostino Di Bartolomei in visita da Fausto Josa all’RC Esquilino.

Faitella – che intervistai e mi raccontò la vicenda – prese a modello la rete dei Milan Club, che comprendeva 300 circoli e mostrava un’organizzazione quasi militare, superiore a Juve, Inter e Torino. Nel corso del 1972 aumentarono a dismisura i club, grazie al lavoro del Centro Coordinamento Roma Club, che aveva l’ufficio nella sede dell’ASR a via del Circo Massimo, e all’apporto di una rivista patinata, Giallorossi, edita da Pietro Fiorani e diretta da Remo Gherardi e poi da Gabriele Tramontano.
Giallorossi pubblicava pagine intere dedicate ai nuovi club, mentre il Corriere dello Sport li liquidava in un trafiletto. Alcuni collaboratori, ad esempio Dario Torromeo, favorirono gli incontri tra i fautori dei club. Finalmente, il 29 aprile del 1973 nell’aula magna del centro sportivo Giulio Onesti all’Acqua Acetosa, una sessantina di circoli diedero vita alla Associazione Italiana Roma Club: l’AIRC.

Gaetano Anzalone tra i capotifosi e alle prese con la folla arrabbiata per gli scadenti risultati.

Molti di quei primi club, in specie nelle borgate e nei paesi, nacquero in scantinati o retrobotteghe di bar e trattorie, qualcuno nelle edicole, un bel po’ come sezioni di piccole società sportive. Essendo più ruspanti i giocatori, vari circoli erano intitolati agli atleti e avevano in loro i presidenti onorari. Anzalone sostenne il movimento, che capiva bene quanto fosse ad hoc per la sua “Rometta” traballante. Si circondò di influenti capotifosi che, a rimirare le foto d’epoca, assomigliano tanto a guardie pretoriane. Ogni inizio di campionato, il presidente-tifoso si recava a fare visita al Centro di Coordinamento. In fondo, è quella stessa macchietta immortalata da Alberto Sordi nel film “Il presidente del Borgorosso Football Club”. Pensate che, in litigio con Ciccio Cordova, Anzalone chiese agli stessi presidenti dei Roma Club di votare se perdonarlo o venderlo! Ma poi gli si parò contro un Roma Clubs Indipendenti, guidato dal tribuno comunista della Garbatella Sergio Terenzi, che cominciò a fargli le pulci. Della serie: chi la fa l’aspetti.

E ci sono almeno altri due punti esiziali legati alla controversa figura di Anzalone: la costruzione nell’area agreste di Trigoria del nuovo centro tecnico, che presto verrà ereditato da Dino Viola ancora in fase di ultimazione, e una sfilza di intuitivi innovamenti nel marketing. Ad esempio, sotto la sua presidenza nascono il logo del “lupetto”, che va subito diretto sulle maglie, e i primi negozi ASR ospitati dentro l’Olimpico. Vedrete che, col nuovo stadio dei Friedkin, avremo qualcosa del genere. Ma il filone più importante fu la linea verde di abbonamenti a basso prezzo rivolta ai teen-ager, che abbassò di parecchio l’età media delle curve romaniste, accompagnando la voglia insopprimibile di mutare il volto della società civile di chi allora respirava i suoi vent’anni. Questo speciale marchingegno l’azionò per prima la AS Roma nella Serie A; uno dei motivi per cui il tifo giallorosso sarebbe divenuto il più scatenato e creativo di tutti nel decennio seguente.

Tonino Di Vizio con Pino Wilson nella sede di via Col di Lana. Gli striscioni della Ass. Lazio Club.

In contemporanea a tutto ciò, la Lazio conosceva la stagione fulminante della “brigata Chinaglia”. Anche il presidente Umberto Lenzini, il pacioso ‘sor Umberto’ di natali americani, non aveva perso tempo sul fronte della tifoseria. La SS Lazio Calcio, amministrativamente rimodernata nel 1963 in virtù della separazione delle sue sezioni sportive e della trasformazione in SpA., ripartì con una serie di giornalini che tirarono la volata alla costituzione della Associazione Italiana Lazio Club, l’AILC, il 6 dicembre del 1971. Al contrario degli anni cinquanta, vediamo che la Lazio, questa volta, non si muove a rimorchio della consorella cittadina, bensì trae spunto dal settentrione. Certe foto di striscioni lo testimoniano: nella Sud ci sono i “Fedelissimi”, esattamente come nella tifoseria torinista. La sede dell’AILC stava al Trionfale in un locale al piano terra a via Simone de Saint Bon civico 47, tana storica della sezione ciclistica biancazzurra.  Bellisario mi dice che il circolo era tipo ENAL, con qualche tavolino e un bancone in un canto per la mescita delle bibite e la macchina del caffè, pareti addobbate di ritagli di giornale, al sabato rivendeva i biglietti e la gente formava file fuori dell’entrata; inoltre, organizzava i pullman per le trasferte. I nomi degli artefici sono quelli di Tonino Di Vizio, il suo braccio destro Adriano Basaglia, Gino Camiglieri, che di professione era ottico, e altri capotifosi, alcuni conosciuti magari col solo nome di battaglia: “er Cinese” o “er Tassinaro”.

Si pongono i termini della scommessa tra Enrico Montesano e Lando Fiorini nella sede del Corriere dello Sport.

Quei primi anni settanta segnarono, dunque, il fatale trapasso dal vecchio al nuovo. La Lazio vinceva quasi tutti i derby e, nel 1973, capitò che l’attore Enrico Montesano costrinse allo streaking attorno al monumento a Giuseppe Garibaldi al Gianicolo il cantante folk Lando Fiorini, niente meno che l’autore dell’inno giallorosso; una scommessa concertata nella redazione del Corriere dello Sport, con la regia del giornalista di fede romanista Alberto Marchesi. Sempre sotto la sede del massimo foglio sportivo a piazza della Repubblica, si radunavano i tifosi per gioire delle rare vittorie o lamentarsi di certe improvvide cessioni dei loro beniamini. C’erano ancora i trombettieri allo stadio che suonavano la carica in stile Grande Torino, e qualche semplice arruffapopolo dalla voce stentorea, come Dante Ghirighini al “muretto” della Sud, l’inventore del “daje Roma daje!” Ma tutto stava rapidamente mutando. Gli anni settanta furono velocissimi, drogati e spasmodici, rockettari e capelloni, perfino zozzoni e spray-volgari, gineco-irredentisti e pornografi, iper-politicizzati, proto-ecologisti, poliziottati, bandizzati e bombaroli on the go, rampolli di miliardari inclusi; chi non li ha vissuti, non se li può immaginare neppure lontanamente.

Arrivano le tv private: il fenomenale Pato, “fratello di latte” di Paulo Roberto Falcao.

Quel che accadde nel nostro calcio fu che il processo di autonomizzazione del tifo, cioè la tendenza delle SpA a favorire strutture associative di supporter onde fidelizzare la clientela, condusse per via traversa alla formazione di gruppi coesi composti da adolescenti o poco più; e molti fra loro amavano interessarsi alla politica attiva, avevano dentro capi leggermente più grandi di età che provenivano dalle cellule di quartiere, Lotta Continua, Movimento Operaio e chissà cos’altro. So per certo che brigatisti rossi andavano alle partite della Roma per svagarsi: me lo disse, durante un banchetto nell’isola di Inhaca, uno di loro scappato in Mozambico per sfuggire alla Digos; ovviamente, lo rassicurai che ero romanista come lui.
In una città governata nella sostanza da un venerando pontefice latinista e sessista, e in una società civile a natura conservatrice ma terrorizzata in quanto attaccata sia a parole che con i fatti dai suoi giovani più istruiti, gli spalti degli stadi si scoprirono in non minima quota eversivi e comunisti-fascisti: battaglia di calci sui campi erbosi e battaglia più seria fuori.

L’epopea ultrà

Modi diversi di tifare Roma e Lazio negli ’70 e ’80: Dante sul muretto a confronto con Maracanà in trasferta…

Vi cito una frase di Dino Viola profferita allorché si ritrovò davanti i capotifosi abituati ad Anzalone: “Dicono di rappresentare 50.000 tifosi e invece ne rappresentano 5. Io considero di più un abbonato, piuttosto di uno che compera il prodotto (il biglietto) poche volte”. Viola, in effetti, ci provò a creare una associazione di Roma Club totalmente dipendente dalla Società, ma non vi riuscì e allora lasciò l’AIRC alle prese con i suoi problemi di autofinanziamento. Allo stesso tempo, instaurò un rapporto di reciproca stima e fiducia con gli “ultrà”, la novella genia di supporter che dilagò negli anni settanta e ottanta. Anche qui, bisogna tornare alla gestione di Anzalone.

… una merenda fuori dello stadio e le sciarpate “British”.

Antonio Bongi, il profeta del primo gruppo ultrà della Roma, mi raccontò le scaturigini, che qui sintetizzo: “Nel 1972, avevo 14 anni, coll’aiuto di Faitella e Fausto Josa, dirigenti del CCRC, fondai i Boys Furie Giallorosse. Noi Boys eravamo tutti teen-ager con simpatie di destra, stavamo in Curva Nord e avevamo diritto allo striscione e a quattro ingressi a partita. L’idea mi era venuta dagli ultrà del Toro, che portavano una cinquantina di tamburi al Comunale. Noi disponevamo di venti tamburi, megafoni, trombe elettriche alimentate dalle batterie delle auto che facevano un chiasso infernale. Organizzavamo i pullman per le trasferte e a volte veniva la mamma di qualcuno di noi, tanto per controllare un po’ le cose. Nel 1973 occorse il primo scontro grave, proprio con gli ultrà del Toro, che erano di sinistra. A casa loro, ci attaccarono all’improvviso con bastoni e caschi, rubandoci lo striscione. All’Olimpico, nella Sud presto spuntarono gruppi simili al nostro. Sul muretto già c’erano i Guerriglieri della Sud, di destra. Al lato opposto stavano i Fedayn di Quadraro Cinecittà, comunisti; il loro capo era Roberto Rulli, un militante piuttosto noto e un ragazzo idealista. La Fossa dei Lupi era di Monte Cervialto, guidata da Stefano Scarciofolo e Roberto Trenta. Le Brigate Giallorosse provenivano da Torrespaccata. Poi sorsero le Pantere Giallorosse e altri gruppi. Stava albeggiando l’epopea ultrà, seppure ancora non c’era il nome”.

La festa per lo scudetto della Lazio nel 1974. Uno dei tragici eroi biancocelesti: Luciano Re Cecconi dopo un gol al Milan.

Si può aggiungere che, in occasione del derby dell’11 marzo 1973, accade un episodio importante: la SS Lazio con un comunicato invitò i tifosi a occupare la Sud, in quanto società ospitante. Quei pochi club coordinati dal CCRC, compresi i Boys, il mattino alle undici fecero una spedizione a sorpresa e scacciarono gli aficionados laziali dal muretto di Dante, che rimaneva giusto al centro della grande curva a cielo aperto. Fra cori e pernacchie, i laziali ripararono in un cantuccio, attaccati alla barriera con la Tevere; al primo derby della stagione ‘73-74, si rintanarono nella Nord. Ergo: proprio nella stagione del primo scudetto la Curva Nord divenne il presidio d’elezione della tifoseria biancoceleste. (Stava cambiando pure la dizione cromatica, per via delle maglie celestine adottate dalla compagine di Tommaso Maestrelli).

Momenti di incidenti all’Olimpico, siamo in pieno negli anni 70.

Era un segno dei tempi: dalla metà dei settanta, la violenza negli stadi si fece endemica e sistematica. La gente cominciò ad avere paura di quel che poteva accadere, soprattutto le donne e i bambini. A sentire gli esperti, si trattava di pochi teppisti, più o meno politicamente orientati. Gli incidenti all’Olimpico avvenivano solitamente nella Curva Sud, dove si attestavano di preferenza quelle decine di “gruppettari” che battevano i tamburi, urlavano slogan, sparavano mortaretti e si avventavano contro le recinzioni, superandole anche, così procurando alla Società giallorossa multe per svariati milioni di lire. Poi c’erano quei gruppi veramente ultrà dalla stampa genericamente definiti “il commando”. Dei cori romanisti, ne ricordo uno in un derby che m’impressionò molto. Era rivolto all’odiato ‘Long John’ e appoggiava Pierino Prati. Sulle note indubbiamente maliose di Faccetta Nera, la curva cantava: “O brutto gobbo / scava la fossa / sarai sommerso dalla furia giallorossa! / Quando saremo / vicino a te / noi ti daremo un altro duce un altro re!”.

La prima volta del CUCS in Roma-Samp 9 gennaio 1977. Il Gruppo Anti-Manfredonia e gli adesivi per autofinanziarsi.

Fu così che le candide mura di travertino si bruttarono delle sigle e dei simboli, delle frasi offensive dei tifosi teppisti. I servizi d’ordine degli stadi sequestravano ad ogni match caldo arsenali di guerra ai giovanissimi che sfidavano, esibendo sguardi spavaldi e sprezzanti, i carabinieri che gli ispezionavano vesti e borsoni: pistole lanciarazzi, scacciacani, chiavi inglesi, spranghe e bastoni, catene da motocicletta, coltelli, bulloni e biglie d’acciaio. Fu giusto un razzo marittimo militare, sfuggito ai controlli, ad uccidere il 29 ottobre 1979 il laziale Vincenzo Paparelli. Gli agenti in borghese, che normalmente nei derby si infiltravano nella Sud, scoprirono l’identità degli assassini: Giovanni Fiorillo detto ‘Zigano’, uno di piazza Vittorio, e i suoi amici Enrico Mancini e Marco Angelini.

Da un paio di stagioni, e precisamente dalla domenica del 9 gennaio 1977, curiosamente nel giorno del compleanno della SS Lazio, aveva esordito all’Olimpico il Commando Ultrà Curva Sud: il famoso CUCS col simbolo della saetta. Il nome “ultrà” lo propose Bongi, ricalcandolo da un articolo del Corriere della Sera in riferimento a scontri di palestinesi. Quelli del CUCS si posizionarono sul mitico muretto, con Dante che cedeva all’irrompere del nuovo modello di tifo. Da parte del resto della tifoseria non si registrarono reazioni di protesta, anche perché lo striscione non lo potevano vedere. Gli ultrà occupavano un perimetro di una settantina di metri e, ben presto, quasi tutti in curva accettarono di essere degli ultrà: dal bambino di sei anni con la sciarpa fino al settantenne col berrettino di stoffa e visiera di plastica di tipo ciclistico. Oggi, se pensiamo agli ultrà, magari a qualcuno può venire in mente che fossero degli esaltati. In realtà, i capi avevano la testa sulle spalle, molto impegnati nel sociale, ma i problemi che dovettero affrontare furono di due tipi: le infiltrazioni degli agitatori e il teppismo mordi e fuggi delle frange violente. Il discorso che proponevano era chiaro: “Guarda che qui si viene per tifare Roma!” Tuttavia, l’abitudine di alcuni ad utilizzare simbologie contraddittorie – il gesto della P38 di Autonomia Operaia insieme al saluto romano, canzoni partigiane e fasciste – ingenerava un terreno di equivocità nel quale allignavano i mestatori politicizzati. Per non parlare degli spinelli e dello smercio di eroina sotto i vomitori, o l’amore libero praticato nei gabinetti incustoditi. Insomma, un minestrone niente male: l’onda della ribellione sessantottina divenuta tsunami negli anni settanta.

Vecchie e nuove tendenze del tifo laziale al tramonto degli anni ’80: gli Eagles Supporters…

Contrapposti al Commando ultrà c’erano gli Aficionados Lazio (1969), il Commandos Monteverde (1971), i Vigilantes e gli Ultras Lazio (1974), i Viking (1978), altri gruppi minoritari e, soprattutto, gli Eagles Supporters: ES. Dal substrato G.A.B.A (1976: Gruppi Associati Bianco Azzurri), gli ES esordirono all’Olimpico il 2 ottobre 1977, in occasione di un Lazio-Juventus. Uno dei fondatori, Marco Saraz, mutuò il nome dagli Hellas Supporters, con i quali aveva contatti. Il simbolo scelto fu dapprima l’aquila della Wehrmacht, e poi, fortunatamente, si optò per un teschio, che per lo meno ricordava l’Amleto di Shakespeare, ovvero la caducità dell’esistenza umana, e non la cieca distruzione nazista. Il primo striscione, lungo 54 metri, gli ES lo confezionarono a via de Saint Bon. Lo stile del loro tifo era tipicamente “British”, sostanziato di cori inesauribili e sciarpate che giungevano a lenire la sofferenza anche in caso di sconfitta. Very romantic. E però, molti degli adepti frequentavano le sedi del FUAN e del Fronte della Gioventù. Sugli spalti sventolavano sempre i tricolori, motivo per cui la stampa ci impiegò un amen ad etichettarli come la tifoseria più fascista d’Italia.

… e gli Irriducibili.

Ho sotto gli occhi la rivista quindicinale del 5 giugno 1983. C’è Chinaglia in copertina e dice: anno IV, numero 49. La direttrice responsabile è Antonella Pirrottina, il caporedattore Gianni Bezzi, coadiuvato da Francesco Troncarelli e Stefano Mattei. Un giornaletto di una trentina di pagine, che aveva aperto la pubblicazione nell’anno in cui la Lazio era retrocessa in B, a riprova di come certe cadute rovinose stimolino le tifoserie calcistiche di ogni epoca. La filosofia Eagles la definirei allineata alle direttive della Società. Almeno a giudicare dall’adozione sui bandieroni dell’aquila stilizzata della Eldorado Lazio Basket, con la sigla ES vicino al becco. E anche dalla pubblicità del marketing, con la foto di Bruno Giordano che legge la rivista nel Lazio Shop di via Col di Lana.

L’Olimpico giallorosso di giorno e di notte, nelle fantasmagoriche coreografie della “torcida”.

Un passo più avanti stavano i ragazzi del Commando romanista. Che svilupparono, ad un certo punto per evitare scopiazzature, un commercio privato di adesivi e sciarpe mirato all’autofinanziamento, con tanto di registrazione notarile del brand. Grande partecipazione corale per entrambi, comunque, ma, a mio avviso, tra le coreografie degli ES e quelle del CUCS non c’era partita. In specie quando la “Maggica” attaccò a vincere sul serio, allestendo all’Olimpico spettacoli magnifici che non hanno trovato l’equivalente mai più. “Nevermore” – come gracchiava a mezzanotte il corvo di Edgar Allan Poe a proposito dell’amata Lenore.

La festa scudetto del 1983 al Circo Massimo. Antonello Venditti e il suo magico disco.

Sto parlando della cosiddetta “torcida”, baldoria carnevalesca di sapore brasiliano, specchio di miscele multi-etniche in corso d’opera nella squadra, e della quale perfino il tifoso eccellente Carmelo Bene, attore e regista di teatro della misura di un Ettore Petrolini, diceva un gran bene. Nel maggio del 1983, la Roma di Nils Liedholm vinse lo scudetto con una media di 40.000 paganti, più i 13.000 abbonati fissi. Cifre che la Lazio di quelle stagioni non avvicinò nemmeno. Ed anche le sarabande metropolitane inscenate per i ritorni in A delle aquile, non si potevano paragonare agli spettacoli biblici, o meglio “imperiali”, delle riunioni da 200.000 lupi al Circo Massimo, con Antonello Venditti nelle vesti di aedo.

Due feste per il ritorno in A delle aquile: 1972 e 1983.

Tra gli scudetti del ’74 della Lazio, occorso in piena crisi economica e politica del Paese, e quello della Roma dell’83, nella più tranquilla Italia di Pertini e Craxi post anni di piombo, c’è come uno iato: il riflesso di due momenti e due psicologie, due popoli in fondo diametralmente opposti nei loro destini, l’uno introverso e l’altro estroverso, seppure uniti dal sacro vincolo del fiume Tevere. Ma questi aspetti, di natura storica, sociologica e antropologica (si potrebbe dire anche dell’alba del tifo tutto al femminile, dei Fans Club e del boom delle radio e tv private che alimentarono un inedito paradigma di chiacchiera sportiva quotidiana), li approfondirò nel prossimo articolo. Che scriverò dopo che, fra pochi giorni, uscirà una mia intervista fatta a due tifosi molto speciali: il romanista Fernando Acitelli, poeta anarchico del quartiere Appio-Tuscolano, e il professor Sandro Portelli, vetero-comunista di quelli tosti. E lì capiremo veramente gli animi giallorosso e biancoceleste. Faremo una TAC.

Chiudo con una piccola curiosità, rispondendo a un’implicita domanda che, forse, qualcuno si sarà posta: perché 1989? Semplicemente perché nel 1989 l’Olimpico fu ristrutturato in vista dei Mondiali del ’90, e con quella operazione si avviò un processo di rifondazione degli spazi che coinvolse le identità delle tifoserie sia della Lazio (nascono gli Irriducibili) che della Roma. L’Ottantanove è pure l’anno della caduta del muro di Berlino, fatale come il Sessantotto. E, tra il ciclopico ”mauer” della Germania orientale, la DDR, e il “muretto” del CUCS , intravedo una liaison ben precisa. Come un’illusione e un’epopea che si sgretolano.