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Aspettando il derby – Parte quinta

foto: R. Colonna

Sabbato ar colosseo di Marco Impiglia

Note storiche, sociologiche, filosofiche e ”psichiatriche” sui sostenitori della AS Roma e della SS Lazio. L’analisi originale di Marco Impiglia.

 

5. IL TIFO MODERNO (1990-2023)

Gli “anni di latta” di un altro ricambio generazionale

La mappa del tifo in città secondo una rilevazione dell’aprile 2022. Una vetrina di un negozio sportivo al Trionfale: la situazione è pari.

Con un po’ di stanchezza, concludo questa cavalcata nel tempo filtrato attraverso le tifoserie della Roma e della Lazio; o della Lazio e della Roma, se invece che al numero guardo a chi è comparso per primo. Devo ammettere che è il periodo che meno mi attira, giacché, pur avendo lavorato per il Corriere dello Sport dal 1992 al 2010, in tutto sarò andato fisicamente allo stadio non più di una dozzina di volte. Infatti, con gli anni novanta entriamo nell’era delle pay per view e di un calcio che, stagione dopo stagione, perde spettatori in presenza e ne acquista in assenza; ovvero seduti davanti a uno schermo tv e poi incollati con gli occhi ai pixel di uno schermo più piccolo ma non meno invadente, che sia un personal computer portatile, un tablet o uno smart-phone. I nuovi device, come li chiamano certuni. Gli strumenti micidialmente potenti e alienanti della Téchne, per citare l’amico Fernando Acitelli.

Con “anni di latta”, mi riferisco a un libro uscito nel 1998 che raccontava l’inabissamento della Democrazia Cristiana. Paradossale che la caduta del Muro di Berlino nel 1989, il crollo dell’equilibro URSS-USA, abbia portato tra le sue conseguenze la chiusura dei partiti popolari DC e PCI, quindi il PSI, il PRI e il PLI; tutte quelle sigle che sembravano uscite dalla bocca di Eta Beta e che gli italiani avevano imparato a memoria. Prima della latta c’era stato il piombo, e abbiamo appurato che la rivoluzione nel modo di tifare degli anni settanta deriva dal Sessantotto, ovvero dall’emersione del contrasto etico non più sopportabile tra padri e figli. Tra piombo e latta, traversata la breve epoca platinata del ”è qui la festa?”, che Renzo Arbore fotografò in certi spettacoli Rai Tv di seconda serata con protagoniste ragazze-gallina, lo scontro frontale con Tangentopoli ha significato qualcosa.

Neofascismo laziale-romanista allo specchio: un Lazio-Bologna del 2017 con simboli nazi e lo striscione per Arkan in omaggio a Sinisa Mihajlovic nel 2000. Romanisti controllati dalla polizia e un vessillo “Marcia su Roma” visto spesso in Curva Sud.

Uno spartiacque per la politica trascinata sul seggio degli imputati, con la corruzione nel maneggio della cosa pubblica divenuta il bau bau da ingabbiare. Ed è stato lì che la sinistra, privata ormai dei suoi fondamenti teoretici, senza più le masse operaie a sostenerla nella nuova società post-industriale, ha iniziato la discesa fino a divenire quasi nulla: la voce di gente istruita dal solido conto in banca e una visione filosofica della “società migliore simile a noi”, che a me ricorda il Fabianesimo di fine Ottocento. La destra è riemersa, forte dei suoi classici paradigmi semplici quanto sempiterni – la Patria, il sangue degli antenati da onorare, la difesa del territorio dallo straniero – che si sono come rivitalizzati per la debolezza manifesta della controparte. Così, nelle tifoserie “dure” della Roma e della Lazio, tutti questi cambiamenti hanno agito profondamente. Dalla grande politica internazionale a quella nazionale e direttamente dentro gli stadi. Perché viviamo in un mondo di imperfetti vasi comunicanti. Comincio con i mutamenti del popolo giallorosso, che meglio conosco.

Si è detto che lo stile ultrà mise piede al nord e scese rapidamente la Penisola. Esso fuse modalità di tifo latino-americano, basato su trombe e tamburi, e modelli inglesi, fatti di cori d’incitamento e strofe di canzoni, la ricerca del contatto fisico con i tifosi avversari. Grazie allo spirito ultrà, come ai tempi di Campo Testaccio anche l’Olimpico cantò. La Sud ebbe il suo poeta in Geppo, che scrisse canzoni venate di romanticismo. Antonello Venditti cavalcò la hit parade con due canzoni: “Roma Roma Roma” e “Grazie Roma”, motivo che è tuttora l’inno ufficiale.

Tifosi vip di fede romanista: Antonello Venditti con Carlo Verdone. Gli attori Mastrandrea, Mammuccari e Claudio Amendola, che nel 1991 interpretò anche un ruolo autobiografico nel fil “Ultrà”. Luisa Petrucci con “Marione” e altri supertifosi.

Le canzoni di Geppo e Venditti furono intonate da moltissimi romani nei giorni dello scudetto ’83. Ma quando l’Olimpico fu ristrutturato, qualcosa di quello spirito volò via attraverso il buco del nuovo impianto. I campionati 1988-89 e 1989-90 la Roma li giocò al Flaminio. La ridotta capienza del Flaminio, privo di pista atletica e molto simile a uno stadio britannico, favorì un’evoluzione rapida della modalità del tifo. Lo stile “British”, caratterizzato dal movimento delle sciarpe tenute alte sulla testa, sostituì lo stile “torcida”, più caotico, stravagante e pirotecnico.

Tra l’altro, il Flaminio si rivelò un luogo pericoloso per la facilità con cui gli ultrà innescavano disordini. La trasformazione dello stile fu completa al momento del ritorno all’Olimpico, nel settembre del 1990. Ai vecchi “curvaroli” la nuova Sud coperta, con 22.000 posti numerati e individualizzati dalle poltroncine di plastica, divisa da vetrate in una zona centrale e due laterali, non piacque per niente. Per motivi fisici di propagazione del suono, risultava arduo far cantare la curva con l’ausilio di megafoni. Inoltre, si era persa la sensazione di libertà che concedeva il vecchio Olimpico, col cielo aperto e la possibilità di spaziare sull’orizzonte. L’Olimpico era sempre un ibrido, ma appariva ora un “ground” più controllabile e molto meno a misura di ultrà. La Curva Sud, di nuovo frammentata in tanti gruppi non collegati, assomigliava un po’ troppo ad una gabbia per le fiere.

La morte di Dino Viola e l’avvento di Giuseppe Ciarrapico, un affarista di destra, peggiorò la situazione. Ciarrapico, coltivando il progetto di crearsi una base di ultras amici all’interno di una tifoseria tradizionalmente di sinistra, cominciò a distribuire biglietti gratis e finanziamenti occulti ai militanti di destra. La maggior parte di questi ultimi si erano formati all’interno del gruppo politico Forza Nuova, e alcuni avevano appartenuto a una banda neonazista implicata in strage terroristica. Nella Sud sempre più divisa, da un’ulteriore scissione del CUCS uscì il gruppo Opposta Fazione, anch’esso con tendenze destrorse. I dissidi di natura politica durante le partite interne ebbero una recrudescenza manifesta. Alcuni ultras si presentavano allo stadio per salutare romanamente, inalberare insegne nazi-fasciste e gridare slogan, fischiati a loro volta dai gruppi rivali. Nelle trasferte, gli ultras neofascisti si resero responsabili di incidenti e le loro manovre di intimidazione fisica e verbale si estesero a quella minima parte della stampa che osava levare la voce per criticare la gestione di Ciarrapico.

Ricordo bene che il collega Fulvio Stinchelli mi confidò di essere costretto ad andare in giro con un revolver in tasca, perché aveva ricevuto minacce al telefono di casa. In un estremo tentativo di recuperare il vecchio spirito e indicare la direzione da seguire, Fausto Iosa, uno dei capotifosi legati a Viola, orientò i suoi sforzi verso la Curva Nord, pilotando la nascita del gruppo Roma e Basta. Quel “basta” voleva dire che non doveva esserci spazio per la propaganda. Nel 1993 Ciarrapico, coinvolto in un scandalo affaristico, lasciò la presidenza. Ma il danno ormai era fatto. Alcuni dei capi della tifoseria destrorsa avevano trovato un’ottima tribuna nelle radio private, il nuovo fenomeno cresciuto a dismisura dopo la conquista dello scudetto. Durante la stagione 1993-94, i militanti neofascisti tentarono senza successo di ottenere finanziamenti, appoggi e coperture dal presidente Franco Sensi.

                                                          Il modo di essere e di tifare del gruppo ASR Ultras.

Clamorosa, perché passata in un telegiornale nazionale in prima serata, fu una loro protesta a Trigoria, accalcati per ore attorno alle inferriate e, infine, dispersi dalla polizia. In una trasferta a Brescia, questi ultras adusi alla violenza di piazza arrivarono ad accoltellare un vicequestore, ferendo i poliziotti con un attacco furibondo condotto con asce, bastoni e bombe-carta. Ma furono individuati e incarcerati, per cui la loro azione, tesa a ricattare Sensi, non ebbe successo. Dopo di che, i “picchiatori neri” furono rapidamente emarginati da quegli stessi personaggi che, dietro le quinte, li incoraggiavano. Dei Cola di Rienzo dall’abile dialettica, che avevano trovato nella jungla delle radio e tv private il loro spazio di manovra per una rendita economica legale e sicura.                                                                                             

La tifoseria ultrà reagì a tutto questo bailamme cercando di ritrovare una propria unione. Il Commando, privato di alcuni dei leader carismatici, ridotto a poche centinaia di elementi, tenne la guida della Sud per circa un lustro. Ma sbagliò nel riproporre il modello anni settanta. All’inizio della stagione 1999-2000, dovette cedere alla ferma volontà della curva di avere un’altra guida in grado di fronteggiare l’avvenuto ricambio generazionale. Il CUCS, dopo un episodio di contestazione assai amaro, si ritirò in un angolo sotto il tabellone dello stadio. Altri gruppi s’impossessarono della parte bassa della curva: il cuore della Sud. L’eredità ultrà venne raccolta dall’AS Roma Ultras, il più determinato della miriade di gruppi di varia ideologia emersi dall’humus culturale degli anni novanta. L’ASRU era forte nel numero e bene organizzato, grazie alla vendita del materiale auto-prodotto. Perseguiva lo stile di tifo considerato “di moda”, basato sulla ripetizione dei cori, il battimani all’unisono e l’ostentazione di simboli politici; più la vendita delle fanzine. Questo era lo stile dell’ultrà di destra, oramai egemone.

Tre stupende coreografie giallorosse degli anni novanta.

Un tipo legato al clan, che vedeva nella Sud l’unico spazio di aggregazione concessogli (gli ultrà sinistrorsi avevano avuto, e continuavano ad avere, i centri sociali). Esso amava vestire casual e preferibilmente di nero, indossare cappellini a visiera sulla testa più o meno rasata. Poteva venire dalla borghesia come dal sottoproletariato, dai Prati e dal quartiere Africano o da aree degradate come Tor Bella Monaca, dove gli accampamenti dei nomadi Rom innescavano comportamenti razzisti e xenofobi nei ragazzi del luogo. Il suo modo di porsi era lo specchio fedele di una gioventù figlia del “riflusso”. Allungata nella fascia generazionale, più ricca nei mezzi economici, diremmo quasi disperatamente cinica, cioè in linea con i tempi. L’ASR Ultras si dimostrò all’altezza della situazione.

Due momenti degli scudetti 2000 e 2001.

Pur essendosi persa la tradizione coreografica folk ultrà, lo scudetto del 2001 venne salutato con un spettacolo semplice e suggestivo: 60.000 bandiere nello stadio a sventolare incessantemente. Come nel 1983, la città accolse la vittoria, ancora più gradita perché succeduta a quella della Lazio del 2000, con uno straordinario senso della festa, del mascheramento e dell’ironia. I laziali furono sbeffeggiati in tutti i modi. Il capitano Francesco Totti fu deificato. La sua maglia numero 10 venne venduta in decine di migliaia di esemplari, sia ufficiali che pirata. Il poster entrò nelle stanzette di ragazzine/i e nelle camere da letto di fanciulli “grandi”.
Per quel che ne so, c’è stato almeno un caso di divorzio per il rifiuto del marito di adempiere alla richiesta della moglie di rimuovere il volto di Totti da sopra la testata del letto, dove prima si inchiodava il più ateo crocefisso.

Grandeur imperiale romanista e laziale a confronto.

Il romanista felice, non più affetto da quel vittimismo millenario che ne mina la natura generosa, può diventare un personaggio simpatico. Il recupero della macchietta del “bonaccione” e “caciarone”, dopo la vittoria del 2001, durò poco. Subì uno sminamento in occasione del derby in notturna Lazio-Roma del 21 marzo 2004, trasmesso in diretta televisiva da un network. Nell’intervallo tra il primo e il secondo tempo, tre esponenti ultras riuscirono ad entrare sul terreno di gioco e a parlare con Totti. Sotto l’occhio delle telecamere, gli comunicarono la loro preoccupazione per situazioni di violenza che potevano crearsi da un momento all’altro all’interno dello stadio, dopo che già da un’ora, nella zona antistante la Sud, poliziotti e ultras si stavano confrontando senza risparmio di colpi. C’era, poi, una voce terribile che girava in curva; essa accusava la polizia di avere ucciso un giovanissimo tifoso della Roma, investendolo con una volante. La voce era infondata, creata ad arte per rendere difficili le cose alla polizia. Ma il risultato di tutto ciò fu che dalla questura centrale di Roma, e col beneplacito della FIGC, arrivò l’ordine di sospendere la partita.

Il deflusso dei tifosi fu tranquillo, il bilancio dei feriti limitato agli agenti dell’ordine e ai tifosi estremisti. L’impressione che il fatto suscitò nell’opinione pubblica, tuttavia, fu enorme. La stampa adombrò il sospetto di un complotto ordito dagli ultras per danneggiare la Federcalcio, colpendola nella risorsa dei diritti televisivi. Gli ultras addossarono alle forze dell’ordine le responsabilità maggiori, accusandole di avere fomentato la tensione con una gestione del pre-partita premeditata verso di loro. Così, per la prima volta, le masse amorfe delle tifoserie, vale a dire le quote non militanti composte in un ampio arco generazionale, compresero che esisteva un nuovo paradigma di tifoso che ce l’aveva a morte col sistema. Un supporter che assumeva un tono vittimistico, anche: gente “anti-global” che, con un bizzarro ossimoro per chi aveva vissuto il ‘68, si definiva “rivoluzionaria di destra”.

Lo statuto dell’AILC nel 2001. L’entrata di un club a Mandela e l’interno di uno nato a Quinto Vicentino subito dopo lo scudetto.

Se mi sposto sul versante laziale, e per mia natura il balzo mi risulta facile, noto un dettaglio: il tipo nuovo di tifoso di destra nasce biancoceleste un attimo prima, almeno rispetto al romanista; uno scarto di appena un lustro, ma significativo. Anche qui, occorre andare a vedere la successione delle presidenze. Esse, infatti, svolgono un ruolo non secondario nell’indirizzare l’orientamento delle tifoserie dei grandi club di calcio. Per la SS Lazio, si passa da Giammarco Calleri (1986-92), il presidente che evitò lo sprofondo in Serie C, a Sergio Cragnotti (1992-2003), lo spregiudicato imprenditore dell’Appio-Latino, l’uomo che porterà a una striscia di vittorie sia in campo nazionale (scudetto 2000) che internazionale (Coppa Coppe e Supercoppa 1999).

Tifosi vip di fede laziale: l’attrice e soubrette Anna Falchi e la cantante Giorgia. La celebre Suor Paola e la campionessa del quiz “Passaparola” Maria Cristina Micozzi.

Cragnotti, il businessman alla Berlusca dalle liquidità in apparenza illimitate, un giorno conoscerà il carcere di Regina Coeli per i suoi buffi, salendo quei fatali scalini che, ai tempi del papa-re, si diceva fossero gli unici a caratterizzare il vero romano. Ma probabilmente la sua vita sarebbe stata più bella e tranquilla anche prima, se non avesse dovuto fare i conti con la tifoseria ultras della sua squadra piena zeppa di campioni autoctoni e foresti. Mi pare di avervi detto – o forse la cosa è comparsa in una delle interviste che ho fatto per mettere a punto la presente indagine – che uno dei caratteri salienti dell’essere supporter della Lazio è la “resilienza” vissuta all’interno di una “sindrome di accerchiamento”. Se abitate a Roma, lo capite bene cosa significa manifestarsi biancocelesti invece che giallorossi: dalle elementari su su fino alle partite a briscola e scopa sui muretti di piazza De Andrè alla Magliana. Altro che indiano, cinese, albanese, filippino, peruviano o arabo: essere laziali nell’Urbe è molto peggio! Parlatene con i ragazzini e sentite quello che hanno da svelarvi: un continuo giocare spalle al muro. Mi verrebbe da fantasticare che la Roma del Mou fa le barricate perché i suoi tifosi arrembano come forsennati. E la Lazio di Sarri gioca all’attacco perché i suoi tifosi stanno sulla difensiva. La legge del contrappasso.

Estetica ed ethos degli Irriducibili nei primi anni novanta, con la loro carica ribelle. Dal volume “Nobiltà Ultras” (1996).

Comunque, tornando agli ultras, quelli laziali nacquero nel 1987. Sto parlando degli Irriducibili, solidamente orientati a destra e che trovarono immediatamente, nel Flaminio in supplenza dell’Olimpico, un nido (si discetta di aquile) ad hoc per crescere. All’alba dell’era Cragnotti, gli Irriducibili (alias i Resilienti, hanno precorso i tempi in effetti) soppiantarono gli Eagles Supporters, gli ex dominatori della Nord. Come ci riuscirono? Semplicemente come opera un carattere genetico recessivo ma trasmissibile, che si impone nella misura in cui, in un dato momento, adatta meglio la sua specie all’habitat. Gli ultrà si comportano come virus in mutazione, ma senza dare una connotazione negativa, no: l’aggressività fa parte dei meccanismi evolutivi dell’Homo Sapiens. Cosa sarebbero gli stadi di calcio colmi di cultori di Gandhi?

La parte bella del tifo per il calcio nella Capitale: la canzonatura.

Gli Irriducibili, ben distanti dallo spirito dei simpatici ma pecorili e sfruttati Umpa Lumpa che abbiamo ammirato in azione ai Mondiale in Qatar, tolsero di mezzo tamburi e striscioni e li rimpiazzarono con una miriade di stendardi dagli slogan sarcastici e sferzanti. Latino e romanesco insieme; mix notevole già sperimentato da Petrolini e Gadda, tra l’altro. Era la ribellione plateale al “sistema”, il non sottomettersi mai e per nessuna ragione ai padroni del vapore. Adamantina, e quasi einsteniana, la loro equazione: «la società dei consumi sta ad un calcio sempre più industria come una generazione senza valori sta ad un ultrà mercificato.»

Tre belle coreografie biancazzurre.

I valori degli Irriducibili li possiamo avvicinare a quelli di un altro gruppo del medesimo ceppo, sorto nel 1991 in Curva Sud: Nobiltà Ultras. Sono i valori dell’indipendenza, dell’origine, della élite del sangue, della difesa del territorio urbano estesa anche alla Patria, in odio all’ecumenismo professato dalle culture di sinistra e cattolico cristiane. Il simbolo referente primo va subito alla Roma imperiale, quella dei Cesari tramite l’aquila delle legioni. Non a caso, in un Lazio-Borussia Dortmund del 1995, i supporter tedeschi rimasero estasiati dalla vista di un vessillo extralarge: Civis Romanus Sum. Una tale impostazione dichiarò una netta deviazione dai CUCS e uno sviluppo in avanti rispetto agli ES e ai Viking, mantenendo comunque la linea maestra. La base di tutto era la libertà di azione.

Razzismo di marca biancoceleste: Scritte contro i giocatori Winter e Hysaj, Anna Frank con la maglia della Roma. Le risposte della parte più sana della tifoseria.

Le fanzine “Mr Einrich”, un ciclostilato, e poi “Voce della Nord”, quando il gruppo si attestava sulle cinquemila unità, servirono a rifiutare i denari della Proprietà e poter così guerreggiare senza sosta in ogni occasione. Ostili anche ai media asserviti al Potere, che è poi il principio guida del tifo ultras in generale: il conflitto perenne con “nemici” di vario conio che funziona da combustibile per alimentare la fiamma. Che è tricolore. I casi di Aaron Winter, il giocatore olandese “meticcio” costretto ad andarsene per i fastidi e il rigetto ricevuti, e la resistenza davanti all’annunciata cessione del centravanti Beppe Signori al Parma della famiglia Tanzi, amici in affari dei Cragnotti, lo testimoniano. Gli Irriducibili anni novanta erano capaci di azioni edificanti a sostegno dei deboli, e ce ne sono state di così numerose che non sto qui ad elencarle. E al contempo coinvolti in giri di droga nel loro quartiere, attori di moti dell’animo che, al senso comune, apparivano aberranti: pronti, i teppisti da stadio abbrunati di biancoceleste (vox populi), a discriminarti sulla scorta della tinta della pelle o perché eri uno “zingaro” o di “stirpe giudea”.

Essere della SS Lazio al 100%, e con un sano spirito di inclusione sociale: una festa della SS Lazio Generale a Castel Giubileo nel luglio del 2020. L’aggiornamento al 1994 del libro di Mario Pennacchia “Storia della Lazio”, apparsa sul periodico “Lazialità”.

Un’impostazione, è doveroso aggiungere, non condivisa dalla SS Lazio generale, la Casa Madre, in quanto assolutamente in dissonanza con i principi di inclusione sociale che fecero nascere il sodalizio nel 1900, in piena età liberale. Ed è qui – mi preme sottolineare da storico dello sport – che si viene a saldare un iter teoretico del tutto distorto. Un percorso che, per assurdo, inizia negli anni settanta, dopo l’uscita del libro “Storia della Lazio” di Mario Pennacchia nel 1969, opera giornalistica intesa solamente a celebrare un ritorno in A col recupero di eventi mai riuniti prima in un vademecum, e trova il suo compimento al tramonto del secolo. Ovvero, l’idea che la SS Lazio abbia da vantare una sua epopea in regime mussoliniano alla quale sia lecito rapportarsi in senso positivo.

Ragione per cui, inalberare simboli vietati dalla Costituzione italiana, cantare slogan razzisti, fa parte integrante dell’estetica del tifo laziale. Un cliché che i mass-media hanno colto al volo, usandolo per attaccare gli ultras per un comodo, e interessato, fiancheggiamento al “sistema” e, indirettamente, rafforzarli; fornire loro il combustibile di cui avevano bisogno. Questo perché la logica amico/nemico anima da sempre il gioco del calcio. Come scriveva Vasco Pratolini sulla rivista Il Campione nel 1956: «il tifoso non è un esemplare umano apparso di recente e destinato a scomparire, ma un personaggio antico di millenni che vivrà finché l’uomo non tornerà alle primitive caverne.» In più, rifacendomi ad una osservazione di Umberto Eco del 1973, se ipotizziamo uno “sport naturale” (l’attività fisica salutare, anche a carattere agonistico), uno “sport al quadrato” (lo spettacolo sportivo) e uno “sport al cubo” (la chiacchiera sportiva), altrettanto possiamo fare col tifo. C’è il “tifoso naturale”, il “tifoso militante” e la “chiacchiera sul tifo”. Scansione ternaria che conferma il calcio-pastiglia ottimo succedaneo alla metafisica plebea.

Ultime varianti

La felicità (e la fortuna) di essere nato/a romanista.

Nel recente scontro all’Olimpico con gli spagnoli della Real Sociedad, ottimamente interpretato dai lupi sotto la guida del capobranco Mourinho, in una carrellata panoramica della regia di Dazn ho scorto, per un attimo, lo striscione “UTR” in un angolino. Ricordo che entrai nella Unione Tifosi Romanisti alla sua nascita nell’anno 2000, chiamato dall’avvocato Fabrizio Grassetti – uno dei fautori del gruppo Personal Jet– a partecipare come contributore a una mostra allestita al Mattatoio del Testaccio sulla storia della ASR. Prima ancora, aveva svolto qualcosa di analogo all’Air Terminal Ostiense per l’AIRC di Aldo Sbaffo e l’amico Luca Prosperi, una delle firme del quotidiano Il Romanista.

Il merchandising: dai primi Roma Shop ai Lazio e Roma Store di oggi. E non si salvano neanche i cani…

L’UTR nacque per fare concorrenza all’AIRC in crisi. Ma direi proprio che oggi la crisi di queste due associazioni di supporter “senza scopo di lucro” è ancora più plateale. Rappresentano un modo sorpassato di tifare che non fa più presa sull’immaginario collettivo, per quanto esse si sbattano con iniziative lodevoli e riusciti tentativi di aggancio alle proprietà americane. I surfer ultras le sorpassano facilmente, solcando un po’ meglio di loro le onde della chiacchiera calcistica a enne dimensioni del tifo contemporaneo. Tutti quanti a galleggiare, come “scopritori” o “naufraghi”, nel mare cosmico della rete.

Così, tutto ciò che oggi fa notizia istantanea nel “villaggio Roma/Lazio” – e che può essere l’assassinio del Diaboliko leader ultrà spacciatore, l’ultima polemica del Mou o di Sarri, il caso psicologico del cucciolo Zaniolo messo al bando dal branco, il Ciro recordman ma sempre in pit-stop, i cori delle curve per la prima volta cantati dalle tribune, oppure lo striscione rubato dagli ultras della Stella Rossa Belgrado ai gloriosi Fedayn romanisti, ma la lista include un milione di altre cose che entrano nel privato stesso dei tifosi – non viene veicolato dai mass-media, come una volta accadeva.

La fede fino in fondo e anche oltre: la sede del Roma Club Testaccio nel 1993 e il ricordo per Alberto Sordi in un Roma-Empoli. Il dolore per la scomparsa in un incidete stradale di un giocatore della Primavera della Lazio. Anche nei cimiteri si trovano sempre più spesso omaggi di questo genere ai propri defunti.

No, la chiacchiera è pixel, rapidissima al microchip, ingannevole se vuoi, e la modellano in tempo reale gli attori stessi, i tifosi, siano essi militanti o meno. Le radio sono ancora in gioco, è vero, ma stanno cedendo e hanno già virtualmente perso la partita, all’urto formidabile con i soggetti social che hanno panchine lunghissime ed applicano schemi mai visti. Stampelle del nostro vivere quotidiano che non sto qui ad enumerare, giacché sono sicuro che le usate ad abundantiam e in maniera ossessivo-catatonica, forse; spero solo di non avere tra i lettori un disadattato (o troppo adatto) “hikikomori”. Allora, per arrivare a boccino, cosa succede? Qual è il fenomeno che si sta sviluppando sotto i nostri occhi e che introdurrà nuove mutazioni nel bacillo del tifo?

Ebbene, accade che perfino gli ultras siano parecchio disturbati, e preoccupati, angosciati, dall’evidenza che non riescono a tenere il passo col tifo agito a enne dimensioni. Così, le fanzine sono già defunte, o almeno quelle cartacee utili all’auto-finanziamento. Difficile risulta dare parole d’ordine e farle rispettare all’interno del singolo gruppo. Ogni cellula dell’organismo, infatti, colloquia minuto per minuto in privato col web, che è libero, per sua natura anarchico, impossibile da controllare e censurare. Sfuggono notizie, segreti, opinioni, che si palesano sulla rete in discordanza clamorosa con la posizione ufficiale. Si sfalda la coesione stessa dell’entità ultras, ne vengono minate la struttura e l’identità. In un processo che, sotto il profilo storico, vedo similare a quello che travolse l’URSS al momento dell’avvento della Perestrojka di Michail Gorbaciov.

Ho letto che la presenza degli ultras negli stadi va considerata come «l’ultima grande rappresentazione in una società piatta e decadente». Circoscritta al mondo occidentale, l’affermazione contiene delle verità sostanziali; ci si può riflettere ed argomentare. E però, anche la smania – romantica e disperata, la definirei – della “appartenenza” come fondamento della propria esistenza, nocciolo dell’ethos fondamentalista ultrà/ultras, resisterà all’onda disgregante e magmatica, sciogli-e-fondi, al Gog e Magog che monterà sempre più nella società globale e fluida che ci attende al varco

 

                                                         Un ambiguo lazial-romanista. Ma voi gli credete?