Tifosi mescolati assieme in un derby disputato all’Olimpico il 6 ottobre 1963.

Sabbato ar colosseo di Marco Impiglia

Note storiche, sociologiche, filosofiche e ”psichiatriche” sui sostenitori della AS Roma e della SS Lazio. L’analisi originale di Marco Impiglia.

 

3. IL TIFO NEL DOPOGUERRA  (1945-1967)

 

La nascita dei circoli

Nelle prime due puntate vi ho illustrato la nascita del tifo calcistico negli anni venti, quando c’era solo la Lazio, e i primi vagiti del tifo romanista: al Velodromo Appio, a Campo Testaccio e infine allo Stadio del Partito, dove vinse lo scudetto nel 1942. Ora vi parlerò di quella età di mezzo che corrisponde al primo dopoguerra e ai decenni cinquanta e sessanta. Una generazione di tifosi nati e cresciuti nei periodi liberale e fascista, ma di psicologia e filosofia “ottocentesca”; nel senso che, alla tradizionale obbedienza alle autorità civili e militari, al maschilismo e al paternalismo secolari di cristiana matrice, alla misura nel comportamento in pubblico di retaggio borghese, si aggiunse una nuova inclinazione al dialogo pluralista all’interno di un consesso sociale democratico a istituzione repubblicana. Per me, tutto ciò ha il sipario in Italia nel 1968, con l’esplosione della ribellione studentesca. I nostri padri e i nonni, per qualcuno di voi anche i bisnonni, dunque. Come tifavano per la Roma e per la Lazio? Tutto sommato, erano abbastanza “manzi”; con la differenza che esiste tra il gioco del Monopoli della mia infanzia e i velocissimi e violenti “game” al computer di oggi.

Tifo romanista nel primo dopoguerra, con l’immagine di un pastore tedesco che è tutto un programma di fedeltà.

Sapete come i tifosi giallorossi celebrarono lo scudetto vinto nel giugno del 1942, in piena seconda guerra mondiale? Nulla di che: appena un composto corteo a piedi di ritorno verso piazza del Popolo, tenuti alti i vessilli e i cartelli “Daje Roma!”, accompagnati da incitamenti stereotipati ai lupi campioni; quindi, tutti a casa a badare agli affari propri. Nelle stagioni che vanno dal 1945 al 1950, disputate da entrambe le squadre al vecchio Stadio Nazionale che nel 1949 mutò il nome in “Torino”, riscontriamo lo stesso scenario delle folle fotografate in bianco e nero, o riprese festanti nei cinegiornali della Settimana Incom. Folle ordinate con indosso il vestito della domenica: giacca di sartoria, camicia chiara, cravatta e cappello borsalino per il cittadino del ceto medio; giacca stazzonata di flanella a quadrettoni e i tasconi, camicia aperta al collo e berretta con visiera per gli appartenenti alle classi più servili, quelle confinate nelle borgate o nei quartieri “lumpen” della metropoli. E considerate che i Monti della Suburra o Piazza Navona, certi vicoli trasteverini, erano aree abitate da gente popolana, come la filmografia neorealista testimonia. L’esordio dei cinquanta coincide con un esiziale salto di qualità delle tifoserie: comincia l’era dei “circoli”, delle associazioni di tifosi che sotto il fascismo non avevano avuto terreno fertile. Prima la Lazio o prima la Roma? Beh, qui prima la ASR. Ma di poco.

La redazione de Il Giallorosso in una rosticceria vicino alla stazione Termini. Si riconoscono il capotifoso Memmo Montanari e Guido Masetti.

La storia andò così. Nella stagione ’50-51, per sostenere i lupi che non mordevano più e rischiavano la B, due tifosi eccellenti, gestori di famosi locali di ristorazione, Peppino Catena e Giuseppe Montanari, organizzarono la cosiddetta “Spedizione dei Mille”: un viaggio in treno speciale alla volta di Genova. Un mese dopo, in occasione di un Roma-Napoli fissato al 19 novembre 1950, lo stesso Montanari e un altro tifoso, Angelo Meschini, fecero uscire il primo numero del settimanale Il Giallorosso, “organo della tifoseria”. Il giornale servì come piattaforma per creare un Circolo Tifosi Giallorossi che si sostanziava di gruppi di tifosi che, da due o tre anni, nascevano senza soste nei bar; c’era pure un grosso movimento che si chiamava Fiaccola Giallorossa, che aveva raccolto 13.000 firme, compresa quella dello scrittore pescarese Ennio Flaiano, per il ritorno di Fulvio Bernardini come allenatore. Montanari, un omaccione tondo con una voce tenorile che si sentiva in capo al mondo, divenne di fatto l’amministratore unico dell’ufficio viaggi e organizzazioni della AS Roma; rifiutò, tuttavia, di entrare nei ranghi sociali in qualità di rappresentante della tifoseria: voleva “mano libera”. Con Montanari, possiamo dire che appare sulla scena una figura di tifoso capace di sfruttare economicamente a proprio vantaggio la passione popolare: un tifoso semi-professionista, l’antesignano dei tanti di oggi. Il sostegno non evitò ai poveri lupi la vergognosa retrocessione. Siccome la Roma era molto seguita da personaggi che animavano il panorama cinematografico e teatrale, uno di questi, Renato Rascel l’autore di Arrivederci Roma, la domenica in cui la squadra giocò l’ultima partita interruppe il suo spettacolo al Sistina e, in piedi sul palcoscenico, annunciò serissimo: “Signori, da questo momento la Roma è in Serie B. Viva la Roma!” Ricevette in risposta un boato di applausi.

Capotifosi della “Attilio Ferraris al ristorante La Conchiglia, giugno 1951.

La città reagì senza isterismi alla situazione. I laziali confidavano in un collasso della tifoseria rivale, e rovesciare così il rapporto numerico a loro sfavorevole che si era instaurato ai tempi del duce. Al contrario, i sostenitori giallorossi si strinsero attorno alla Società, più uniti che mai. Il 28 giugno 1951 i capotifosi, riuniti in assemblea in un ristorante a via del Corso, dichiararono il loro appoggio alla dirigenza. Il presidente Renato Sacerdoti, quello che aveva costruito Campo Testaccio, lanciò una formula di abbonamento che consentiva con una somma modesta di diventare soci vitalizi sostenitori, conquistando il diritto di voto alle assemblee e la possibilità di frequentare la sede del club, che stava a via del Tritone a pochi passi da quella laziale a via Frattina. Prima dell’avvio del campionato di B, La rete dei circoli diede vita alla Associazione Tifosi Giallorossi ‘Attilio Ferraris’. Si creò un collegamento ufficiale tra l’associazione, guidata da una ventina di capotifosi, e la Società. L’attività dei circoli e il numero di abbonati garantì incassi sold-out. I circoli si riconoscevano allo stadio Torino dallo striscione che recava il nome del quartiere. Un esercito di migliaia di persone prese a seguire le trasferte utilizzando torpedoni, treni e auto private. Legioni di romani invasero i piccoli centri della provincia italiana, provocando talvolta incidenti con i locali; incidenti che rimanevano nell’ambito degli insulti e delle scazzottate.

Il boom dei circoli giallorossi nel campionato 1950-51.

Il settimanale Il tifone criticò gli atteggiamenti guasconi della tifoseria romanista, così diversa da quella laziale che si presentava molto più prudente e civile. Quindi entrò in polemica con i “nuovi tifosi” che traevano dai viaggi organizzati cospicui guadagni. La Roma ritornò in Serie A e non sarebbe più scesa in B. Bisognerebbe aggiungere che, alla fine del decennio, dopo aver toccato il numero di 80 gruppi aderenti e 24.000 affiliati, la Attilio Ferraris si sciolse. Motivo principale fu l’intervento della polizia, che accertò la trasformazione di parecchie delle sedi dei circoli, di solito bar, in bische dove si giocava d’azzardo. Anche in questo caso, la passione era servita da volano al business. I Roma Club furono comunque luoghi di aggregazione che svolsero un loro ufficio importante. L’attività dei più sani di questi circoli, come l’Esquilino, includeva tornei di carte e biliardo, ma anche medaglie offerte a campioni dello sport o messaggi di auguri a personaggi e società sportive. C’erano poi sale riservate ai giovanissimi, fornite di ping-pong, calcio-balilla e bigliardini, i primi juke-box. Modello per questa attività erano i circoli ENAL che gestivano su base statale il dopolavoro. Il senso di una vita spesa in nome della ASR, dalla culla alla bara, direi che per molti principia proprio qui.

Il giornale bianco-azzurro nella sua stagione d’avvio.

Va bene, ho detto della Roma. Ma, come disse Paul Gascoigne la prima volta che arrivò in città da Londra col contratto in tasca e gli stavano propinando il giro turistico: “Ok, this is Rome. And where is Lazio?”
La Lazio copia. Eh sì, la SSL arriva un attimo dopo ma fa le cose per bene, senza mettere in azione i carabinieri. Sono il presidente Remo Zenobi e altri esponenti delle famiglie laziali classiche, i mecenati e i dirigenti – Bitetti, Casoni, Penza, Nostini, Mariani, Saraceni, Ancherani, Jannucci, Tessarolo, Giovannini et alia – che si interessano a seguire la rete di “circoli biancazzurri” che sorge anch’essa tra il 1951 il 1952. Fa da volano un settimanale, bianco-azzurro (con la b minuscola), che si autoproclama “la voce dei tifosi laziali”. Il primo numero esce il 29 settembre 1951, dieci mesi dopo l’uscita di Giallorossi. Il foglio – di formato 58×44 e che riprende la tradizione dei giornali societari Lazio (1913-1926) e Forza Lazio (1940-42) – ci racconta l’evoluzione di un tifo organizzato che, al contrario della AS Roma, si interessa molto alle vicende delle altre sezioni componenti la polisportiva. Giuliano Arati e Franco Lefevre lo dirigono. Per un caso, ho nella mia collezione lazial-romanista cinque numeri; e dico tanto perché questo giornale è rarissimo e quasi sconosciuto, al punto che non viene citato da LazioWiki.

L’esordio dello striscione del Circolo Tifosi Biancoazzurri del Trionfale in Lazio-Torino del 28 ottobre 1951.

Nella storiografia del tifo, Mario Pennacchia nel suo libro del ’69 non accenna alla novità. Maurizio Martucci, scrivendo nel 1996, ricorda la proliferazione dei circoli, ma senza riferimenti a quelli romanisti. Siccome l’emulazione è la madre di tante cose buone e cattive, non ci sorprende il gioco a rimpiattino tra i due club dell’Urbe. Secondo le mie ricerche, il Circolo Tifosi Bianco-azzurri del Trionfale è il primo a nascere, in una riunione di trentasei aderenti tenuta al bar Allegria in via Andrea Doria il 23 settembre del 1951; proprio il quartiere Trionfale, oggi da molti indicato come il vecchio cuore della tifoseria biancoceleste.

Giocatori laziali in ritiro a Ostia prima di un derby, con i tifosi e i curiosi che li attorniano, ottobre 1955.

Nella sua sede a via Saint Bon, civico 47, nel dicembre dello stesso anno il circolo capostipite indice un incontro con altri tifosi di Frosinone, Rieti e Viterbo. L’obiettivo è allargare l’ambito oltre i confini della Capitale, e si parla di deliberare uno statuto sociale. Accanto al Trionfale e ad altri ruppi organizzati che nascono in rapida sequenza al Flaminio, a Trastevere, all’Appio-Tuscolano e a Primavalle, vediamo spuntare club, o piuttosto covi da bar, anche a Palestrina, Bracciano, Tivoli, Oriolo Romano, Latina. Ed è da tutti questi paesi, e da alcune cittadine della regione, che convergono, alla domenica e mai visti prima, i torpedoni, le “carovane” e i “treni biancazzurri” per incitare una squadra che, giusto in quegli anni, ottiene ottimi piazzamenti nella massima serie. Sto parlando della Lazio di miti che citava il mio babbo Leto, marchigiano jesino immigrato, tipo Muccinelli, i fratelli Sentimenti, Vivolo, lo svedese Selmosson, la cui paventata cessione nel 1955 alla Roma sollevò proteste accorate.

La rete dei circoli biancazzurri ha un aggancio ben saldo con la polisportiva – di cui fa parte amministrativamente la sezione calcio – e dà adito a iniziative come un torneo giocato sotto la supervisione della SSL. Ma vi dico di più: il legame tra la tifoseria e i componenti della squadra è così genuino, forse pure più profondo rispetto agli omologhi romanisti, che possono accadere episodi come quello raccontato da Pennacchia nel suo bellissimo volume. Sentite che roba: Sentimenti III è ricoverato in ospedale per una tonsillite. La moglie è combattuta tra l’assistenza alla figlioletta Silvana di sette anni e il marito in clinica. I tifosi che frequentano la sede sociale di via Frattina si offrono a turno di ospitare in famiglia la piccola Silvana, così che “Ciccio” rientra in campo più forte e “bersagliere” di prima. Chapeau! Altro che ASR Ultras e Irriducibili… qui c’è “Cuore” di Edmondo De Amicis.

Allo stadio ancora insieme

La pubblicità di una organizzazione de Il Giallorosso.

Vi dico una cosa che, all’apparenza, suona strana: nell’estate del 1954 i tifosi giallorossi poterono acquistare un libro, uscito a fascicoli e rilegabile, dal titolo: Storia Illustrata della Roma. Il cinquantennale della Lazio non aveva avuto margini per una iniziativa del genere. Questa è una spia. La spia del fatto che la clientela romanista bastava per un libro storiografico, e quella laziale no. Dal maggio del 1953, sia la Lazio (per prima) che la Roma cominciarono a giocare nel nuovo Olimpico, che tra l’altro per un po’ di tempo portò male ai lupi che non vincevano mai. Uno stadio da novantamila posti con la pista di atletica intorno, i calciatori lontanissimi dalle curve nord e sud, assolutamente non pensato dal CONI per lo spettacolo del football professionistico. Pochi anni dopo, aprì il Flaminio a viale Tiziano, più piccolo e lui sì a misura di pallone, che presto divenne il campo dove la Lazio, in altalena tra la A e la B, giocava di preferenza.

Manufatti del calcio di una volta: un 45 giri dedicato alla Roma…

Nella seconda metà dei cinquanta e nei primi sessanta, altri elementi si aggiungono a un cocktail colorato e gustoso. Le succursali del tifo appassionato del centro tecnico di Tor di Quinto per la Lazio (stagione 1958-59) e del Tre Fontane all’EUR per la Roma, subito dopo l’Olimpiade. I giornali serali che danno le “ultime” sulle squadre. I personaggi della cultura che scrivono sul derby; ad esempio, gli interventi in stile “volemose bene” di Alberto Sordi e, su tutt’altro piano, le parole al vetriolo di Pier Paolo Pasolini, che su l’Unità usa il calcio per evidenziare le diseguaglianze sociali di una città in magmatica crescita.

… e un disco orario per laziali.

Tra i nuovi romani, chi intende allinearsi sceglie la Roma, chi si sente “contro” sceglie la Lazio. Per un altro letterato comunista, Vasco Pratolini, laziali e romanisti sono le due facce della Roma borghese e popolare, quella di sempre: i bulli contrapposti ai paini. Poi le macchiette dei tifosi mascherati con improbabili frac recanti i colori sociali, sullo stile inglese, uno dei primi fu un romanista di sinistra del “transatlantico” di Montecitorio, Adriano Verdolini. Dal gennaio del 1960 la schedina Totocalcio la si segue meglio anche sugli spalti del Flaminio e dell’Olimpico, grazie alle radioline a transistor e alla trasmissione Tutto il calcio minuto per minuto. La sera c’è alla tele l’altro programma cult, La Domenica Sportiva, che però la RAI manda in onda da Milano in omaggio al potere nordista. Il lombardo Gianni Brera attacca a scrivere che nella Capitale mai si potrà vincere lo scudetto, nonostante Pedro Manfredini detto “Piedone” e la conquista della Coppa delle Fiere, perché “in primavera tira lo scirocco”.

Il presidente della AS Roma, Renato Sacerdoti, alla inaugurazione del Circolo Esquilino, 1957.

Nell’era del boom economico, in una Italia che finalmente decolla, iniziano gli affollamenti delle auto utilitarie e degli scooter in marcia domenicale sui lungotevere; processioni laiche che fanno da pendant alla messa dei preti e al mondo femminile della piccola e bionda Rita Pavone che canta “perché non mi porti a vedere la partita di pallone?” Si discute animatamente di calcio tutta la settimana: negli uffici, nelle fabbriche e nelle scuole, nei bar mentre si trangugia il caffè con la brioche e Nanni Loy esegue il suo scherzo della “candid camera” all’americana. Il battibecco perpetuo fa passare le ore ai portieri gallonati dei ministeri (due a uno il rapporto, secondo una nota curiosa stilata da Flaiano). Roma o Lazio, chi arriverà davanti, è egualmente il sofisma preferito nelle pause dei carpentieri che, seduti in un canto, divorano il panino con la frittata mentre costruiscono i mastodonti delle periferie. I palazzi in serie che arricchiscono quegli stessi imprenditori che assumeranno la maggioranza del pacchetto azionario della ASR: i Marchini e gli Anzalone.
Rimane inalterata la possibilità di godere la battaglia rutilante della stracittadina camminando per strada insieme, per sedersi sulle panche di legno verde uno accanto all’altro – laziali e romanisti – e tornare pure a braccetto, come due bravi compari, per concludere la giornata in una trattoria a ponte Milvio, magari pagando la scommessa perduta. Questa cosa me la diceva Gaetano Bordoni, un tifoso giallorosso di San Lorenzo.

Tifosi mescolati assieme in un derby disputato all’Olimpico il 6 ottobre 1963.

Me l’ha ripetuta cinque lustri fa Gianfranco Giolitti, gestore di un omonimo bar oggi sparito, da non confondersi con quello che ancora sta aperto a via Uffici del Vicario: “La Lazio era una delle poche squadre che organizzava i treni speciali per le trasferte. Si partiva la sera del sabato su carrozze prenotate, si faceva tutta la notte in viaggio; arrivati sul posto la mattina, il tempo di visitare la città e ci si recava allo stadio. La maggior parte erano giovani, e si portavano la colazione al sacco; ma c’era anche chi partiva in macchina per conto suo. Ci accomodavamo in curva, raggruppati, qualcuno isolato se ne andava in tribuna. Nei grandi stadi del nord nessuno ci disturbava, si poteva urlare forza Lazio! In provincia la situazione era più mossa. Ricordo in particolare una volta a Bergamo, intorno al 1961-62, quando dovetti saltare dalla tribuna dei distinti fin dentro il campo per sfuggire agli atalantini inferociti. Negli anni sessanta il tifo era una cosa abbastanza tranquilla anche a Roma. Nella zona di Piazza Mazzini, la gente era abituata a riunirsi nei bar subito dopo la fine delle partite. E anche negli altri giorni, generalmente di pomeriggio. Quasi tutti laziali, con qualche infiltrato romanista. Ci si giocava l’aperitivo, una rasata della zazzera. Mi è capitato più di una volta, all’indomani di un derby, di ritrovarmi le serrande dipinte di giallorosso; e una scritta per terra ci impiegammo due giorni a pulirla. Quando finivamo in Serie B, pure, era la stessa storia… “

Il presidente Umberto Lenzini all’inaugurazione del circolo EUR-Laurentino, dicembre 1965.

Le note antiche del signor Giolitti ci aiutano a capire come la sindrome dell’accerchiamento, la scena dei pionieri del Far West con i carri chiusi in circolo e i pellirosse a inscenare un indiavolato carosello, fosse un fatto largamente acquisito nella età di mezzo del tifo calcistico capitolino. Pochi giorni fa, alla Casa della Memoria in Trastevere, il professor Sandro Portelli, classe 1942, già dirigente di Rifondazione Comunista, mi ha confermato sull’origine storica di questo dato: “Il tipo laziale in cui mi riconosco è l’alternativo, il perdente. Se scegli la SS Lazio, sei automaticamente uno che va contro il senso comune, entri a far parte di una minoranza. Noi della vecchia scuola abbiamo un po’ di difficoltà a fare i conti con il concetto di lazialità di questi ultimi anni. La lazialità che ho in testa io è quella di quando la Lazio frequentava i bassifondi della A e sovente giocava in B: la cosiddetta “Lazietta”. Questo concetto della Lazio dei perdenti stava ben dentro la mia quotidianità, al punto che mi piaceva ripetere agli amici: nella vita mi va tutto bene, per cui un pochetto di sofferenza me lo concentro tifando per la Lazio allo stadio”.

Tifosi romanisti assistono a un allenamento della squadra al centro tecnico Tre Fontane, 5 novembre 1967.

Verissimo, a parer mio. E ho una esperienza personale a supporto. Nel settembre del 1966, in occasione di una partita persa rovinosamente a Firenze, il babbo cominciò a portarmi con sé a vedere la “Lazietta” in azione. La prima stagione all’Olimpico, poi si scese in B ed ecco il Flaminio che, agli occhi di un bimbo di sei anni, appariva sotto tutt’altra veste. Una casetta piccola, intima, “cosy” come si dice in Inghilterra: i giocatori vicinissimi che li potevi udire. L’Olimpico era l’anfiteatro dei gladiatori, ovale immenso e bianco di travertino, con un cielo maestoso, sempre pieno all’inverosimile. Io lo sentivo intimamente romanista. Il Flaminio era il posto delle fragole, un luogo segreto per pochi, forse i migliori, i credenti con la croce sulle spalle. Fu in quei primi anni sessanta che, al ponte Duca d’Aosta, spuntarono i chioschi ambulanti che vendevano le bandiere di stoffa serica stampate. L’aquila dorata era praticamente un piccione. La Lupa molto più cattiva, digrignante sul piedistallo.

Il famoso episodio della “colletta del Sistina” avvenuto nel dicembre del 1964.

Era, dunque, finita l’epoca delle bandiere tessute in casa: l’immaginario dettava legge nel commercio minuto. Se compravi il giornale all’edicola all’angolo, vicino all’Upim di Largo Irnerio, il Corriere dello Sport, pure, era romanista: tutti gli amici laziali al bar di via Monti di Creta all’Aurelio lo ripetevano. Il negozio di articoli sportivi a via Santa Bernadette presentava cinque magliette a scelta per i ragazzini: Roma, Lazio, Inter, Milan, Juve. Sextus non datur. La AS Roma aveva il Dodicesimo Giallorosso, un grosso club a Casal Bertone con la tana in un bar. Se le cose andavano male per i lupi, c’era il commediografo Pietro Garinei che organizzava la colletta al Sistina: capitan Giacomino Losi, “core de Roma”, passava col secchio di plastica dove tutti i romanisti buttavano, felici, larghi biglietti da mille al grido: “La Roma non si discute, si ama!” La mia Lazio era quella delle cinquanta lire a delfini per dieci pacchetti di figurine Panini, con il turco Can Bartù, Dolso, D’Amato, l’argentino Morrone, il portiere Idilio Cei dal volto gentile. In una classe di tutti romanisti, eccetto una bambina bionda, la Lisa, e due “stranieri” che stavano per l’Inter di Mariolino Corso e Sandrino Mazzola.