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Gabriele D’Annunzio ed il padre Tevere

La lettera autografa

La lettera autografa. Dal volume di Marchesi e Tobia, Storia del Circolo Canottieri Aniene, dicembre 1983

Sabbato ar colosseo di Marco ImpigliaMarco Impiglia ci racconta tutto sul rapporto di Gabriele D’Annunzio ed il biondo tevere

 

Anche quest’anno, le Perseidi scivoleranno nel cielo notturno, a ricordarci che la vita è un ciclo che si rinnova, ma la luna piena della trentaduesima settimana non ci agevolerà nell’osservazione delle stelle cadenti. D’Annunzio, per istinto come molti poeti, credeva nella ciclicità della Natura, e in generale di tutte le cose. Per contro, all’eterno ritorno contrapponeva un ritornante oblio, necessario agli uomini per affrontare il rivelarsi dell’esistenza con occhi sempre nuovi. Uno dei suoi modelli, in tal senso, era il fiume Tevere.

Il rapporto del Vate col rio che ha dato il nome stesso alla Città Eterna (Rumon significava “il fiume” nell’antica lingua degli etruschi) è stato poco esplorato da letterati e critici. Tra l’altro, notiamo che esso contatta i sentimenti del poeta ma entra di slancio nei suoi impulsi più materici e fisici, quelli legati al sesso, alla guerra, al rischio e allo sport.

D’Annunzio trascorse buona parte dei suoi “twenties” a Roma, scrivendo articoli modani per i giornali che toccavano avvenimenti di caccia (alla volpe nella campagna romana, e lui stesso partecipava trasgredendo in licenze amorose con le madamoiselles coniugate o meno) e d’ippica, le famose “seasons” alle Capannelle.

D’Annunzio a un meet di fox hunting nel 1897
D’Annunzio a un meet di fox hunting nel 1897

Nel romanzo Il Piacere, redatto a Francavilla a Mare allorché si stufò di fare il cronista nella Capitale, il protagonista, Andrea

Il romanzo Il Piacere riscosse un ottimo successo nelle vendite
Il romanzo Il Piacere riscosse un ottimo successo nelle vendite

Sperelli, un nobile romano nato negli Abruzzi, è un appassionato delle corse dei cavalli.  In un passaggio tra i più belli, viene descritta la partenza di una corsa al galoppo come neppure un jockey professionista avrebbe potuto fare.

La “competence” di d’Annunzio, riguardo a cani e cavalli messi in gara su una pista chiusa, già all’età di ventisei anni era inarrivabile.

 Di conserva al romanzo, d’Annunzio vergò una lirica sul Tevere, pretesto per rievocare i delicati sentimenti vissuti a Roma nel biennio 1887-1888 al fianco di “Barbarella”, al secolo Elvira Natalia Fraternali, la sua musa del momento. Non che Barbara fosse l’unico nome che il seduttore – già sposato con due figli a carico – aveva dato alla ragazza, a sua volta reduce da un matrimonio naufragato con un conte bolognese, perché chiamava l’amante anche Ippolita, Jessica, Miranda, Bibli e “Vellutina”, dalla pelle morbida alle carezze come il velluto. Per lei, invece, Gabriele era semplicemente “Ariel”, lo spirito libero ed etereo del peccato.

Il componimento, ideato di getto nell’eremo di San Vito in Lucania nel 1889, si intitola: La sera mistica sul Tevere, all’Albero Bello. D’Annunzio aveva trascorso varie serate erotiche con la Barbarella in una casupola in riva al fiume chiamata dal popolo “la casa del Lorenese”; per via che a metà del Seicento vi aveva vissuto i 27 anni della sua permanenza romana il pittore paesaggista Claude Gellée, detto “le Lorrain”.

La copertina dell’edizione originale Zanichelli
La copertina dell’edizione originale Zanichelli

L’elegia, pubblicata dalla libreria Zanichelli di Bologna nel 1892, ad un certo punto recita: «Tacito passa il fiume, tacito come il Lete. Regna il silenzio. È questa la pia solitudine amica, l’alta che noi cercammo riva letèa d’oblìo?» (3)

Ecco, dunque, che per d’Annunzio il Tevere è il Lete dantesco, acqua lustrale sacra che pulisce dalle scorie dell’esistenza, dal viaggio “sporco” della carne in preparazione al viaggio di ritorno dell’anima.

Pure, trent’anni dopo le “sere mistiche”, d’Annunzio, nei giorni dell’impresa di Fiume, la città contesa dalla Croazia all’Italia dove visse quasi due anni da condottiero inventando financo lo “scudetto” tricolore, si reca sul Tevere.  

Ivi è accolto con gioia, sul galleggiante ancorato a valle di ponte Regina Margherita, dai “consoci” della Canottieri Aniene, una delle società sportive che il Comandante frequentava.

Perché d’Annunzio, polisportivo d’eccellenza, fu personaggio equestre ma anche acquatico, e nella fattispecie canottiere; seppure le sue gioie migliori le sperimentò come motonauta, e a lui è oggi dedicato un club sul Lago di Garda.

Come scrisse e pubblicò anni fa Alberto Marchesi, giornalista del Corriere dello Sport, ex canottiere e rugbista di talento, nume tutelare giù al barcone della Romana di Nuoto, d’Annunzio spedì da Fiume, dopo il “Natale di sangue” del 1920 che mise la parola fine all’avventura fiumana, la lettera autografa che sta in cornice all’Acqua Acetosa, nell’odierna sede dell’ottocentesco circolo presieduto da Massimo Fabbricini e tanto caro a Giovanni Malagò. La lettera dice:

Piero Caccialupi vi porta il mio saluto fiumano, un saluto di dolore e orrore. Il vostro guidone giallo e azzurro l’ho raccolto io stesso fra i calcinacci della mia stanza

colpita dalla fraterna granata (glie l’avevano mandata contro le truppe italiane, ndA) e l’ho qui accanto a me. Sento l’odore del Tevere e vedo il colore del Tevere. Qui fu consumato il più atroce delitto della nostra storia che per tanto sanguina. Resta una sola cosa intatta: il coraggio. Questo vi conforti e vi assicuri. Pensate al vostro compagno lontano. Vi abbraccio, Gabriele d’Annunzio. Fiume 2 gennaio 1921.

Quale fosse l’odore del Tevere, e quale il colore del Tevere, per Gabriele d’Annunzio, non lo potremo mai sapere.  Mi piace immaginare, considerato che stiamo cent’anni addietro rispetto all’inquinamento del 2022, un sentore fresco di selva come quello che dovettero provare i fondatori dell’Urbe con indosso la pelliccia di lupo. La tinta, invece, è biondo rossastra, venata di verde e di bigio, delle inquietanti strisce nere che celano le pietre più antiche immerse al buio, nell’ora del tramonto del sole.

D’Annunzio amava il Tevere perché, al sussurro perenne e misterioso del Tevere, egli aveva saputo amare.

Un “Ariel” erotico al mare e l’amante “Barbarella