Ginulfi-Pelé

Sabbato ar colosseo di Marco Impiglia

Che notte, quella notte! Roma-Santos 1972: Marco Impiglia racconta l’impresa dell’ex portiere giallorosso…

 

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In ritiro prima di iniziare nelle fila giallorosse la stagione 1971-72; questa foto, scattata dal professionista Giuliani, Alberto me la regalò nel 2006.

Sapete che, almeno fino a qualche tempo fa, nelle redazioni dei giornali c’era, nascosta da qualche parte, una bestiola chiamata “coccodrillo”. Credevo fosse estinta, e invece è ricomparsa con la scomparsa di Pelé. Poiché non sono mai stato un coccodrillaro, e nemmeno uno che si fa i selfie e rilascia interviste a due passi dalle salme, vorrei evitare imbalsamazioni più o meno fasulle e, piuttosto, contrapporre due figurine di calciatori del passato che sono finite a schiccherare sui prati anni ’60 e 70 l’una contro l’altra in un paio di occasioni. Appunto Alberto Ginulfi da Roma, sua prima squadra la Spes di San Lorenzo, e Edson Arantes do Nascimento, cresciuto nel Santos.

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La filosofia di vita di Pelé.

Per un caso, non solo li ho visti entrambi in azione, ma pure ho avuto modo di scambiare con loro quattro chiacchiere: veramente solo due parole in portoghese col brasiliano, due belle e polpose interviste col mio concittadino. Di Pelé ho ricordi in bianco e nero, comuni a molti italiani calciofili over sixty. Il primo ricordo, ripescato da un cubiforme televisore portatile Sony del 1970, è quella esultanza dopo il gol ad Abertosi che aprì la serie di marcature della finale all’Azteca. “O rey” saltò una buona spanna sopra il nostro Tarcisio Burgnich (lo stile uguale a quello di CR7 quando va in sospensione) e lì capimmo che la Coppa Rimet nessuno glie l’avrebbe tolta dal sacco.

Pochi mesi prima, sulla RAI, avevano mandato le scene del millesimo gol col Santos, mi pare ci fosse Maurizio Barendson ancora che commentava. E comunque tutto sembrava venire da un mondo lontanissimo, forse dalla luna stessa, con la fantascientifica pausa di ben cinque minuti per riuscire a sgombrare dalla gente il terreno di gioco e far tirare il penalty. Ancora un annetto dopo l’avventura degli Azzurri tra le nuvole di Messico ’70 – non ci giurerei ma mi pare sto nel giusto – la RAI mandò in piena estate l’amichevole di addio di Pelé alla nazionale, al Maracanà contro la forte Jugoslavia. Pelé disputò un tempo e non segnò. A colori, l’ho visto invece all’Olimpico nell’amichevole Roma-Santos del 3 marzo 1972. Era uno dei classici tour europei del Santos. Avendo Pelé nei ranghi, il Santos di quell’epoca era come i Globetrotters del basket americano: tutti nell’Europa occidentale li volevano vedere, con la conditio sine qua non che la prima ballerina dello spettacolo fosse presente.

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La tabaccheria che Ginulfi aveva aperto dopo aver attaccato gli scarpini al chiodo.

Ebbi questa bella fortuna di vedere Pelé giocare dal vivo perché mio nonno Peppino, tifoso giallorosso nato ad Altamura, mi aveva fatto la tessera di “lupetto” nonostante avessi solide radici biancocelesti. Piano piano, mi ero affezionato alla “Rometta” di Giacomino Losi e compagni.

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Ginulfi a una Befana romanista dei tempi del presidente Alvaro Marchini, siamo nel 1968.

Quella dell’allenatore Oronzo Pugliese, che mi faceva ridere perché correva sulla linea del fallo laterale sbraitando frasi incomprensibili rivolte ai suoi attaccanti, e poi l’altra, più superbiosa, del “mago” Helenio Herrera. A bordo di una Fiat 127 aragosta, partimmo dal rione Monti e, molto presto, il mio nonno romanista si accorse di avere sbagliato i calcoli. Il lungotevere era intasato di automobili, impossibile giungere in tempo per l’inizio prefissato del match. Con la loro naturale magniloquenza, i tifosi si affacciavano dai finestrini delle utilitarie che procedevano a passo di lumaca, sfidando il freschetto invernale, e urlavano gioiosamente frasi del tipo: ”Stasera famo li bozzi a Pelé!” Rammento vagamente che varcammo i cancelli dello stadio senza neppure pagare il biglietto, trasportati nel fiume dei ritardatari fino al parterre. E la partita era iniziata da un bel po’.

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Un’immagine nei Cosmos di Giorgio Chinaglia.

Poi, sul finire, ecco il momento nel quale tutti i novantamila segretamente avevano sperato: Pelé immobile sul dischetto del rigore e, a undici metri da lui, come un Ettore al cospetto di Achille, la sagoma in maglione nero di Alberto Ginulfi. Il brasiliano tutto vestito di bianco con la pelle di un nero lucido che pareva ebano puro. Non esagero se dico che brillava come una Madonna.

La finta la vidi bene, perché mio nonno mi prese sulle sue spalle possenti di ex bersagliere. Una fintarella appena accennata, per indurre il portiere a lanciarsi sulla sua destra. Ma Ginulfi non abboccò e parò facile sulla sua sinistra, il tiro rasoterra non forte né angolato. Un rigore scialbo, come l’intera prova di quello stanco Pelé di fine stagione, che stava per svernare nel football made in USA dei Cosmos; assieme a Bobby Charlton, Franz Beckenbauer, Johan Crujiff e perfino, più in là ancora, Long John Chinaglia, in fuga dalla Lazio orfana di Maestrelli.

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Para il rigore a Pelé…

Nella prima intervista a Ginulfi, che avvenne il 29 ottobre del 2001 in occasione della registrazione di una puntata del format “La Signora in giallorosso”, trasmissione televisiva all’epoca gestita dall’ex segretario della ASR Gilberto Viti, il sanlorenzino, a una delle domande in scaletta, quella della parata più bella o più importante in carriera, non citò il rigore di Pelé. Ma cinque anni dopo, allorché trascorsi una mezza giornata con lui, mi mostrò orgogliosamente la maglia ricevuta negli spogliatoi dal “mostro”, e anche un’altra di Maradona.

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… che subito con grande classe si congratula.

Pare proprio che il rigore di Roma-Santos 1972 sia stato l’unico parato da un italiano a Pelé; uno dei cinque sbagliati nella sua lunghissima carriera agonistica, giovanili comprese. Alberto è un uomo modesto, per cui ammette senza problemi che la sua non fu un’impresa tecnica notevole. A quei tempi, i portieri non studiavano la maniera di calciare dal dischetto degli attaccanti della Serie A, figurarsi gli stranieri! Fu, dunque, puro istinto.

Certo non pensavo più a Pelé, un mattino del 1989 che stavo trottando in via Agostino Depretis, diretto a via Nazionale. Sapete come capita: tu cammini tranquillo, rimuginando i fatti tuoi magari a testa bassa, e, all’improvviso, una voce interna ti suggerisce di girarti. Guardai alla mia destra e, a un metro di distanza sullo stretto marciapiede, c’era “O rey”. Stava dritto impettito sui due gradini dell’ingresso di un hotel, vestito da gran signore come usava nella seconda parte della sua vita, quella del business-man attento a curare i suoi interessi, sempre gravitanti nel mondo dello sport.

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Nel 2006 con la maglia del Santos di “O rey” , foto scattata da me personalmente.

Fu un attimo: mi bloccai come una lepre davanti ai fari di un’auto di notte. Tirai su lo sguardo, lui abbassò il suo: stava in quel preciso momento in cui esci da un albergo in una città straniera e hai un appuntamento da qualche parte, ma non sai bene che direzione prendere. Poiché conoscevo la lingua portoghese per via di alcune stagioni passate in Mozambico, esplosi in un: “Você é Pelé, o famoso jogador de futebol, é verdade?”. Lui sorrise. Quel sorriso tutto Chlorodont, spettacolare e che ti allarga le gote, che possiede sovente la gente di colore. Con un evidente punto interrogativo disegnato sulle rughe della fronte, Pelé accennò un piccolo sì.

Porsi subito la destra ma non ebbi il coraggio di attaccare bottone, bloccato com’ero dall’emozione, come per tema di importunarlo e fargli perdere tempo. Aggiunsi solamente che avevo “muito prazer” e che lo stimavo tantissimo, anche se aveva battuto l’Italia nel 1970. Quindi proseguii come se fossi preda di una gran prescia – e invece non ce l’avevo. Tutto qua. Magari, l’avessi incontrato qualche anno dopo, quando già lavoravo per il Corriere dello Sport di Italo Cucci e poi di Mario Sconcerti, le cose sarebbero andate diversamente.

Adesso di Pelé ho il ricordo di quel sorriso e il punto interrogativo. Forse lo stesso punto interrogativo che Ginulfi seppe leggere, e perfettamente interpretare, sulla fronte del re dei rigoristi mezzo secolo fa.