Sabbato ar colosseo di Marco Impiglia

Argentina Campione per la terza volta nella sua storia. Il commento di Marco Impiglia su Qatar 2022.

 

Che il campionato mondiale di calcio appena passato sia stato eccezionale, e alquanto fuori dagli schemi, è sotto l’occhio di tutti. Giocato sotto Natale nel deserto, in un paese che ama le corse dei cammelli e poco sa di football. La fase finale più costosa della storia, considerato che i qatarini hanno speso per ospitarla una cifra dieci volte superiore a Brasile 2014. Non contando i dollari sottobanco che hanno elargito solo per averla; ovvero gli intrighi con i francesi del corrotto Sarkozy ai tempi di Blatter. Un torneo a 32 squadre, forse l’ultimo con un tale standard, disputato in pochi stadi vicini fra loro, senza le distanze di un grande paese con un retaggio vero alle quali si era abituati. Pensate che la superficie in kmq del Qatar è inferiore a quella di New York City. È stato anche il Mondiale privo della nazionale campione d’Europa, l’Italia di Mancini buttata fuori dalla Macedonia del Nord, un borgo balcanico con meno abitanti di Ostia Lido.

Tifosi-Qatar 22
I tifosi finti hanno fatto rimpiangere gli spettatori cartonati della Pandemia.

Era stato presentato come il mondiale dell’auspicata resa dei conti tra CR7 e Leo Messi, con Neymar e Mbappé possibili terzi incomodi, e ora sappiamo chi l’ha vinta. Rassegna di stelle che ha ridondato di sensazioni fatte di plastica, per la visione di “fake-fans” molto simili agli Umpa Lumpa, gli operai immigrati che si sono travestiti con le casacche dei maggiori team. Credo utilizzando biglietti pagati da un comitato organizzatore che, in certi frangenti, per la sua malignità e il cinismo ha ricordato la fantomatica SPECTRE dei vecchi film di James Bond. Perché laggiù i cittadini con i diritti legittimi sono una sparuta minoranza, una élite che se ne va in giro indossando lenzuolini bianchi, e il resto sono iloti: gli schiavi di sangue foresto dell’antica Sparta.

Stadi-Qatar 22
Come cattedrali nel deserto. Gli stadi hi-tech, usa e getta di Qatar ’22.

Per noi italiani è stato “Tutto il Mondiale minuto per minuto”, confezionato da una generosa Mamma RAI e rullante in stadi nuovi di zecca, altamente techno e quindi perfetti, perfino scomponibili e trasportabili neppure si trattasse di casette prefabbricate; col surplus della cosiddetta “realtà aumentata” per gli spettatori più cibernetici. Ma si è commesso l’errore di esagerare con l’aria condizionata, tra l’altro una “fissa” dei medio-orientali come li conosco, così che si sono veduti giocatori imbacuccati in stile Argentina 1978. E lì sì che c’era l’inverno australe! 

Nella mia veste di cultore di “aneddoti sportivi”, devo dire che mai come in occasione di Qatar 2022 la battaglia conclusiva della guerra che incorona la nazionale di calcio più forte del pianeta si è andata arricchendo, giorno dopo giorno, di fatti curiosi, notevoli e quasi incredibili. Tante piccole o grandi storie sospese tra geopolitica, economia, religione, costume, tecnologia, cronaca rosa o nera, e infine sport. Tante riflessioni da intavolare. Ne ho scelte alcune per voi.

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Non ci era mai capitato di assistere a un Mondiale iniziato con un monologo alla Marco Antonio del “Julius Caesar” di Shakespeare (Amici, Romani, compatrioti, prestatemi orecchio…) da parte del presidente della FIFA. Un po’ come dire che il re feudale ha dato l’avvio al torneo dei cavalieri, convenuti da regni lontani, scusandosi per il luogo stesso della giostra. Sentendosi lambire dalle fiamme del “boycott Qatar 22”, Gianni Infantino, lui che da qualche tempo ha messo le tende in Qatar per godere bagni sibaritici nell’acqua verde tenebra dei gasdollari, ha spudoratamente annunciato al mondo di sentirsi: “gay, disabile, un lavoratore immigrato… perfino una donna”. E ho citato testualmente traducendo dall’inglese: anche quelli della CNN, adusi a tutto e di più, sono rimasti basiti. Il discorso di Infantino che ha preceduto la finale non si è discostato da questa linea, celebrativo del “suo” Mondiale come “the best ever”, col corollario che a un match di football ci si va per divertirsi e le altre questioni non devono entrarci. Da storico dello sport, vi posso certificare che è esattamente la tesi sostenuta dai comitati olimpici da Berlino 1936 a Pechino 2008. Due eventi planetari, Olympic Games e FIFA World Cup, che girano attorno a due focus: inclusività e business.

Infantino-Fifa-Qatar
Il discorso del Re – Gianni Infantino, la Fifa, il Qatar: una storia d’amore e di monarchia.

L’esotismo alla Lawrence d’Arabia ha subito strizzato l’occhio a cliché letterari sul modello delle “Mille e una notte”. Ad esempio, sui media britannici ha fatto colpo l’avventura capitata a un gruppetto di supporter dei Three Lions a caccia di birra, prodotto raro per via delle proibizioni coraniche. Avvicinati di sera da un “lenzuolino”, che in realtà era il figlio di uno sceicco, si sono ritrovati invitati a sollazzarsi in una reggia opulenta con scimmie e leoni dappertutto: “It was crazy!”.

Per contro, pure se sei inglese e quindi un ex “master”, in omaggio a un inferiority complex evidentemente ancora attivo, le strette politiche anti-LGBTQ praticate, con una legge in Qatar che prevede tre anni di prigione per il reato di omosessualità, hanno condotto a tutta una serie di episodi eclatanti: dal divieto della “fascia arcobaleno” che volevano indossare i capitani di Olanda, Inghilterra, Germania, Canada, Danimarca ecc., nella sostanza il nord del mondo sensibile al tema – e ci sarebbe da domandarsi come avremmo reagito noi italiani se fossimo stati presenti –, fino a diversi casi limite.

Incredibile quello dei tifosi brasiliani ai quali è stata sequestrata ai cancelli d’ingresso la bandiera dello stato del Pernambuco che aveva colori sospetti agli occhi ignoranti dei poliziotti. Per non dire del giornalista americano filo-gay, fatto fuori con una puntura ad azione ritardata durante una visita medica, ma ufficialmente morto per collasso cardio-circolatorio in tribuna allo stadio. Tre i giornalisti saliti in cielo: un record macabro che nessuno si aspettava.

USA-Iran-Qatar 22
Stato canaglia” vs “Grande Satana”. Iran-USA è una sfida per diplomatici dal cuore forte.

Sempre girovagando intorno a codeste sfingi del deserto, prima di passare al calcio giocato, a Doha è andato in scena l’atto secondo della tragedia “Iran vs Women vs USA”. Ho già detto dell’ingaggio avvenuto a Francia ’98, quando il team iraniano sconfisse gli yankees, fra i quali ricorderete il pacifista capellone Alexi Lalas, bollati questi ultimi come i rappresentanti del “Grande Satana” dall’ayatollah Khomeini. Questa volta, gli ayatollah barbuti hanno dovuto contrastare un ammutinamento della loro squadra nazionale. Che non ha cantato l’inno nel match d’apertura, a indicare il sostegno quasi compatto (non l’allenatore portoghese e il suo staff) alle proteste in patria contro il regime femminicida.

I nordamericani, per soprammercato, hanno vilipeso l’islamismo estremo dei governanti a Teheran, pubblicando sul sito della federazione di soccer la bandiera dell’Iran senza i segni teocratici. Come dire: tornate ai tempi belli dello scià Reza Pahlavi, ché a noi in quell’area ci servono alleati. E poi li hanno battuti sul campo. Ora, non sappiamo che fine faranno i giocatori del Bounty made in Persia: facile che saranno puniti tramite sottili strategie invisibili anche ai droni. La prima fase è stata caratterizzata dall’eliminazione precoce di due team molto alti nel ranking: il Belgio e la Germania. I tedeschi non sono il massimo della simpatia, ma occorre dire che hanno subito una doppia beffa. Sorpresi dal Giappone in apertura, capaci di imporre il pareggio alla Spagna, dallo stesso undici di Luis Enrique si sono visti negare l’approdo ai sedicesimi per un calcolo che prevedeva la sconfitta con i nipponici in cambio del posizionamento nella parte “no Brasil” del tabellone.

Giappone-Var-Qatar 22
Quando la realtà supera “Holly e Benji”: la VAR-fiction di Spagna-Giappone.

Una delle reti del 2-1 tra Giappone e Spagna ha chiamato all’azione tutta la tecnologia futuribile del pallone Al Riha. I sensori celati all’interno hanno permesso di vedere “in” un cross da fondo area apparso “out”, e questo grazie alla proiezione della curvatura sulla linea di gesso. (Ma è ancora di gesso? Me lo chiedo…). Un “Var goal” condito dalla storia, in puro stile Manga, dei due protagonisti Mitoma e Tanaka, cresciuti in una scuola della città di Kawasaki col sogno di dare lustro un giorno alla propria patria.

Le altre vicende che hanno tenuto banco fino agli ottavi, unitamente al momentaneo fuori servizio e altrettanto rapida resurrezione del brasiliano Neymar per i pestoni ricevuti dai giganti serbi, sono state, a mio parere: 1) la sorprendente direttiva in base alla quale le partite della prima fase hanno avuto extra-time di parecchi minuti superiori alla norma, fino al caso record dei 27 di Iran-USA. Secondo il capo degli arbitri, Pierluigi Collina, un primo step verso l’obiettivo del “tempo effettivo di gioco” che avrà presto ripercussioni sulla nostra Serie A. 2) La sconfitta all’esordio dell’Argentina con una Arabia Saudita “tatticamente evoluta”, come direbbe il telecronista-tifoso Lele Adani. 3) l’emersione del sommergibile Marocco, che ha sciorinato una versione 2.0 del “catenaccio” di rocchiana memoria. Al riguardo, è spuntato fuori il classico aneddoto: un tipo in Australia ha vinto un milione di dollari puntandone 75.000 sui nordafricani ai quarti, e senza sapere nulla di football. 4) Il drammone, non del tutto inatteso vista la cacciata alla vigilia dall’organico del Man United, di cui si è reso protagonista Cristiano Ronaldo.

Ronaldo-Qatar 22
La caduta – Gli ultimi giorni mondiali di CR7.

Sostituito dal coach Fernando Santos nella sfida con i sudcoreani, nel successivo ottavo con gli svizzeri CR7 non è partito titolare. Un atto di “lesa maestà” che non si verificava da tempo immemorabile, così che abbiamo assistito al fenomeno di una rissa selvaggia di fotografi davanti alla panchina dei lusitani al momento dell’inno portoghese, col campione platealmente soddisfatto della scena. La compagna “wag” modellata a sua immagine e somiglianza, la Giorgina, ha interpretato su FB il Ronaldo-pensiero non rivelabile apertamente dal narciso: “Sei sempre il migliore, perché tutta l’attenzione dei media è su di te!”.

Ma non è finita qui, perché il sostituto, il giovane Gonçalo Ramos, ha siglato una tripletta, per cui nel quarto di finale con i marocchini ancora CR7 è rimasto a guardare fino a una ventina di minuti dal termine, quando Santos, temendo le critiche, gli ha dato il via libera. Personalmente, guardando come voi la telenovela, per la prima volta ho sentito un moto di compassione per lui, la superstar arrogante che tentava di risolvere con una giocata delle sue quella che era diventata improvvisamente la partita cruciale della sua carriera. Ma a 37 anni suonati, un messo con un cappuccio nero calato sul volto ha bussato alla porta: Cristiano ha aperto e ha visto il nulla, ha provato il morso gelido dell’impotenza. Le sue lacrime “live”, mentre tornava negli spogliatoi senza condividere l’amarezza patita con i compagni, erano vere. Tutto era autentico e non sceneggiato o posato, come invece in altre occasioni: la disperazione, la solitudine del monarca detronizzato, la consapevolezza della chiusura di una stagione vissuta da prima donna.

Il Marocco, dunque. Dopo la clamorosa fase a gironi, ero abbastanza certo che i rossoverdi magrebini sarebbero andati più avanti delle altre compagini africane. Ricordando la Nigeria del ’94, che per un soffio non aveva battuto l’Italia di Arrigo Sacchi e Roberto Baggio, ho pensato: vuoi vedere che questi qui vanno fino in fondo? Il “continente nero” lo merita, è un evento che prima o poi doveva accadere. Il Marocco è un paese islamico di etnia araba, e per la prima volta giocava in un territorio che parlava la lingua di Maometto. Cogliete, ora, la logica sottesa alla rivelazione Marocco?

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“Nereo, akbar!”.  La riscoperta del Santo Catenaccio dietro al cammino soprannaturale del MaRocco.

Tre cose sul frangiflutti Amrabat, sul para-rigori Bonou, sul folletto Ziyech e soci: la prima è il record stabilito dall’attaccante del Siviglia Youssef En-Nesyri col suo gol al Portogallo: un balzo ad anticipare di testa il portiere che ha stupito gli esperti; secondo un calcolo ripreso dal giornale spagnolo Marca, ben 278 centimetri, ventotto in più del Ronaldo juventino che celebrammo illo tempore. La seconda cosa che mi ha impressionato sono state le scene di affetto fra di loro e con i congiunti, in particolare quelle dell’ex interista Hakimi con la madre intabarrata. La terza immagine che mi è rimasta è il saluto alla loro gente dopo l’eliminazione sofferta dalla Francia: tutti allineati in ginocchio, gli eroi di Regragui, con le mani stese e i visi a baciare l’erba. Si tratta del “Suyud”, uno degli insegnamenti del profeta Mohammed che esprimeva così la sua gratitudine ad Allah dopo una buona notizia. Mai avevamo vissuto un Mondiale tanto intriso di religione come questo ospitato nell’arcaico eppure modernissimo Qatar. Il gioco del football, definito dagli antropologi un surrogato della mistica di ieri, è venuto a patti con una delle grandi religioni dogmatiche che hanno diretto la storia dell’Uomo.

Due storielle curiose a introduzione degli accadimenti della fase calda: i quarti e le semifinali. La prima rimette in causa Infantino, sorta di Flash-fan del Mondiale che è riuscito ad assistere in tribuna a tutti i match spostandosi velocemente da uno stadio all’altro.

Invasore-Qatar 22
L’invasore Falco, arrestato dai qatarini, è stato salvato per intercessione di Re Gianni il Misericordioso.

Durante l’ottavo tra Portogallo e Uruguay, al 52’ un ragazzo ha invaso il terreno di gioco vestito da Superman, con sul torso e la schiena scritte a sostegno dei due temi politici in voga: le donne iraniane e l’Ucraina; per di più, il tipo sventolava la proibitissima bandiera arcobaleno dell’amore universale. Acchiappato e portato via, si è poi saputo che era Mario Ferri alias “Falco”, trentasettenne ristoratore di Pescara non nuovo a simili imprese. Finito il match, coll’elicottero del comitato organizzatore Infantino è andato a trovarlo nella caserma che lo deteneva in attesa di giudizio.

Ivana-Croazia-Qatar
Senza distinzioni di fede, nazionalità  o razza: il messaggio d’amore universale di Ivana ha unito e commosso il mondo.

Pare che il dialogo sia andato così: “Hai pisciato fuori dal vaso… questi qui ora stanno molto incazzati! Che devo fare con te?” E il Falco: “Mister, voi della FIFA avete vietato le fasce arcobaleno ai capitani e le bandiere dei diritti umani negli stadi, e avete bloccato tutti ma non me. Ai cancelli, ho nascosto la bandiera nelle mutande, e quelli non hanno osato metterci le mani. Volevo vedere se un italiano povero poteva mettere nel sacco mille arabi impaccati di dollari!” Al che, pare che l’Infante abbia sorriso e immediatamente ordinato ai gendarmi la scarcerazione, con la condizione che il Falco venisse rimpatriato sul primo aereo in partenza per l’Europa.

Il secondo non è un aneddoto ma la nota rosa del Mondiale. Giacché parecchie “wags” hanno preferito non sfidare la “pruderie” degli sceicchi, è toccato a una croata nata e cresciuta in Germania, Ivana Knoll, rischiare un minimo per avere in cambio la totale attenzione della quota xy del pianeta. Il suo dress code dentro e fuori gli stadi non è certo passato inosservato. Influencer (ovviamente…), ex miss Croazia, specialista della pole dance e della danza del ventre, modella a tempo pieno, la conturbante Ivana ha portato fortuna alla truppa di Luka Modric. E ha anche rivendicato una sfilza di richieste di appuntamento da parte di giocatori di varie nazionali, già tutti eliminati dalle giostre. Sarà vero? Lascio a voi l’ardua sentenza.

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Anche le Pulci, nel loro piccolo, si arrabbiano! Messi: il mariuolo che nessuno si aspettava.

Finora ho parlato poco di Leo Messi. La sensazione che fosse davvero giunto il momento della sua definitiva santificazione l’ho avuta a due riprese. La prima allorché la Croazia ha tolto dai giochi il Brasile di “O Ney” e della “danca do Pombo”, profittando della classica distrazione dei verde-oro che li colpisce sempre, e li fa piangere, allorché si convincono di essere i padroni di un campionato del mondo: vedi Italia-Brasile al Sarrià nell’82. Il secondo brivido messianico è stato il prodotto di due fattori congiunti: i gol che la pulcetta australe di sangue marchigiano (gli argentini sono italiani che si esprimono in spagnolo, celiava lo scrittore Borges) infilava con regolarità “blaugrana” e la “garra” che ci metteva.

Nel quarto con l’Olanda, Messi ha preso completamente la scena. Guidando i suoi alla vittoria ai rigori, dopo il portentoso schema su punizione al minuto 111 attuato dallo stregone Van Gaal, e poi cantandone quattro sul muso dello stesso Van Gaal. Nelle interviste a caldo, lo si è visto rimbrottare un avversario che, a suo dire, lo guardava male. Poco prima in campo, aveva insultato e sbeffeggiato gli olandesi dopo l’ultimissimo rigore di Lautaro assieme ai compagni scatenati. Sembravano bambini ai giardinetti. La scolaresca rinselvatichita e assolutamente libera da leggi e convenzioni, perduta e feroce nell’isola del Signore delle mosche.

The Incredibile Mbappé – Però la cosa più incredibile è che la tripletta in finale è valsa solo una medaglia d’argento! 

Infine, abbiamo saputo che la testa di maiale infissa alta sul palo era quella di Kilyan Mbappé. Ce lo ha rivelato una sfida Francia-Argentina dai tratti epici, quasi al livello del “partido del siglo” all’Azteca tra Italia e Germania nel 1970. In effetti, se uno dei due pugili avesse scoccato il pugno del KO, il 4 a 3 ai supplementari, e specialmente se l’Albiceleste vi fosse riuscita, lo Stadio Iconico di Lusail sarebbe venuto giù: gli arroganti emiri, il rubizzo Infantino in scarpe da ginnastica e occhioni tondi svizzeri, i tanti VIP assiepati nella tribuna VIP, i bocchettoni dell’aria condizionata e tutto.

E così, dopo trentasei anni come aveva profetizzato Maradona senza neppure saperlo, il piccolo titano Messi ha rialzato la coppa stupenda creata dal genio italico (un grosso fallo d’oro, ma qui non mi dilungo sul dettaglio che tutti si sono peritati di baciarla sulla punta mentre gli emiri sorridevano). L’ha sollevata al cospetto di un popolo letteralmente adorante. Lieto di accompagnare l’impresa dei paladini di Scaloni col canto Muchachos: “In Argentina sono nato, terra di Diego e Lionel, dei ragazzi delle Malvine che mai dimenticherò”. Un popolo largamente nutrito dalla linfa di avi emigrati italiani, e che quindi ha sofferto prima di gioire, come siamo abituati noi quando operano gli Azzurri.

Messi-scialle-Qatar
Maradona aveva previsto tutto. Tranne la vestaglia sulle spalle di Messi.

Ma cosa sarebbe accaduto se il guastatore Mbappé, dopo aver tirato fuori la Francia dal trou de merde praticamente da solo, trois buts in una finalissima, avesse spaccato il cuore a due miliardi di persone (16 milioni solo in Italia) staffilando in rete la sua serpentina dell’ultimo secondo? Ve lo dico: nulla sarebbe successo, semplicemente perché non poteva succedere. C’era chi vigilava dall’alto. Voi avete tremato? Io no. Paolo Dybala ha spazzato via il pallone del sogno con la migliore giocata del suo mondiale in do minore, trascorso a fungere da riserva a Dio.

Questo happy end è buono, ma non basta. Due cose ancora: non mi andato giù, e immagino neanche a voi, il siparietto dello scialletto nero che l’emiro del Qatar, Tamim bin Hamad Al Thani, ha imposto sulle spalle di Messi. Col beneplacito dell’Infante che sorrideva e invitava l’eroe a sottostare al fuori programma come una “madame” il cliente del bordello. Leo Messi, e soprattutto l’Argentina, non meritavano l’affronto. Un rito è un rito e non va mutato. Alzare il trofeo con la “camiseta” in gramaglie! Sono più che certo che il Diego se lo sarebbe subito tolto, lo scialle qatarino trapunto d’oro zecchino, e comunque mai l’emiro onnipotente avrebbe azzardato la mossa.

La seconda considerazione al sipario riguarda la Francia, l’Africa e il futuro sportivo (chi vincerà nel prossimo ventennio) della FIFA World Cup. Avrete notato che, a un certo punto, con “les Bleus” in bambola davanti alle prodezze di De Maria e Messi, Didier Deschamps ha tirato fuori dalla lizza gli ultimi elementi non di colore rimastigli, eccetto il portiere e capitano Lloris, e solo allora Mbappé si è scatenato: dieci ragazzi di etnia afro contro i pallidi biancocelesti in vantaggio due a zero.

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“Allez, les Noirs!”. La nuova Francia, più nera che bleue, e i suoi scontenti.

Scorreva una vena razzista nella compagine transalpina, esternata dal difensore Benjamin Pavard e che ha miniato la compattezza del gruppo. La Francia del football, e dello sport in generale, vive questa contraddizione: vince ricorrendo in gran copia a guerrieri di matrice africana ma continua ad avere generali celto-gallici: gli Asterix della situazione. Per contro, abbiamo squadre come il Marocco che escono al sole pieno grazie ai figli degli immigrati in Belgio, Francia, Spagna e altri paesi occidentali. Giovani assi che scelgono di abbracciare la causa dei loro genitori e rinnegano la nascita europea: il tanto sbandierato Ius soli.

Chi afferma che il football oggi non sia un affare politico, di alta politica internazionale proprio, e al contempo uno specchio fedele delle dinamiche economico-sociali in itinere tra l’Europa e l’Africa, è un cieco o un ipocrita. Un falso fariseo che cura i suoi interessi. Qatar 2022 l’ha dimostrato, se pure ce ne fosse stato bisogno.