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Alessia Nardi nella sua personale. L’arte trasforma in memoria viva ed in sguardo vigile capace di attraversare il silenzio

foto: Riccardo Piccioli

Un viaggio nel linguaggio pop di Alessia Nardi che intreccia memoria, cronaca e responsabilità condivisa

Non può e non deve essere un caso. Un 25 novembre, Giornata Internazionale per l’Eliminazione della Violenza sulle Donne, sì, tutto in maiuscolo, perché ogni parola ha un peso specifico; così come ha un particolare peso la personale di Alessia Nardi che, con la mostra Fragile, apre un varco emotivo che trascina il visitatore nella zona in cui l’arte incontra la vita e le sue ferite più profonde. Di base un richiamo alla necessità di ascoltare ciò che spesso rimane soffocato.

L’esposizione di Alessia Nardi utilizza immagini pop per raccontare la tensione sommersa che attraversa la quotidianità, una tensione che emerge da oggetti comuni e segni minimi che diventano rivelatori di dinamiche taciute. Ma non solo, anche il contorno della mostra, quelle mura bianche su cui le opere sembrano ospiti, mura domestiche che possono essere di una casa qualsiasi, capaci di assorbire momenti tragici o felici, contaminate ed incontaminate, aspetto rassicurante o gelido

La cronaca degli ultimi anni restituisce una sequenza di storie che mostrano quanto la violenza agisca nelle case e nei gesti ripetuti e nell’abitudine che diventa gabbia, una realtà che appare nei titoli dedicati ai femminicidi e negli sguardi di chi prova a denunciare senza essere ascoltato. Nardi si inserisce in questa tensione e la traduce in un linguaggio visivo che non punta allo shock esplicito ma alla rivelazione del quotidiano come spazio fragile e vulnerabile. Pop e punk nello stesso momento, attraente e dirompente.

Ogni oggetto scelto dall’artista diventa testimonianza di un equilibrio instabile e mette in luce la linea che separa l’affetto dal dominio, una linea che spesso si dissolve e rimane riconoscibile solo a tragedia avvenuta. Forbici, aghi, cuori giganteschi e cioccolatini pongono domande sul modo in cui la normalità costruisce strumenti potenzialmente pericolosi e rivelano il rischio nascosto nelle consuetudini di ogni giorno.

In opere come Ti ago e Senza te, nonsostare l’ironia, viene suggerito che la violenza non nasce da un gesto eclatante ma da una ripetizione che graffia la percezione fino a diventare minaccia. La riflessione si intensifica di fronte a Manifestoporno che spinge il visitatore a misurarsi con uno sguardo che non concede tregua e che mette in scena la vulnerabilità del corpo femminile attraverso un collage di riviste pornografiche avvolto dal nastro Fragile, un corpo che osserva chi guarda come se volesse restituire la stessa attenzione che la società spesso nega alle vittime. La forza dell’opera risiede nella sua capacità di richiamare la responsabilità dello sguardo e di chiedere un’attenzione capace di riconoscere ciò che la cronaca racconta ogni giorno.

La voce dell’artista emerge con chiarezza quando riflette sull’uso degli oggetti comuni come strumenti narrativi e sottolinea che la tragedia non ha bisogno di immagini estreme per essere compresa perché vive nelle stanze e negli oggetti che popolano la vita quotidiana e nelle parole che diventano armi emotive e lasciano segni invisibili ma profondi. La sua introspezione riporta al centro il desiderio di anticipare il pericolo prima che si trasformi in violenza esplicita.

Il linguaggio pop scelto da Nardi permette di avvicinare un tema doloroso attraverso un codice visivo immediato e comprensibile, un codice che utilizza la ripetizione e la semplicità come strumenti per fissare concetti e ricordi e per costruire un immaginario che rimane nella mente come un richiamo alla responsabilità collettiva. L’ironia diventa una lama che incide e non una fuga, uno strumento per rendere visibile ciò che spesso viene nascosto.

Il lavoro sulla parola assume un ruolo decisivo e la ripetizione funziona come un mantra che richiama la memoria e restituisce ai concetti una forza capace di radicarsi nello sguardo e nel pensiero del visitatore, un esercizio di attenzione che diventa consapevolezza e che richiama la necessità di riconoscere i segnali che la società tende a ignorare. Ogni frase colorata utilizzata dall’artista si colloca nel punto in cui la lingua incontra l’immagine e le due dimensioni si rafforzano reciprocamente.

Una riflessione sulla fragilità come luogo in cui può germogliare un processo di trasformazione e come terreno che permette di creare anticorpi simbolici contro la violenza, un concetto che richiama l’idea di antifragilità e che suggerisce che la visione può diventare un gesto di crescita e non solo di denuncia. L’arte diventa quindi un dispositivo che invita a estendere il senso del 25 novembre e a trasformarlo in un giorno che appartiene a ogni istante.

Intervista ad Alessia Nardi: 

Nelle tue opere la quotidianità diventa un territorio in cui la violenza si annida prima di mostrarsi in modo evidente, come lavori per trasformare oggetti comuni in segnali rivelatori di una tensione che spesso rimane invisibile?

Quello che voglio comunicare è diretto alle donne, dobbiamo allenarci a cogliere i segnali primordiali, quelli che non riconosciamo perché ci sembrano pieni d’amore mentre invece nascondono possesso e ossessione. Credo che unendo immagini iconiche, oggetti quotidiani e parole che ci appartengono da sempre, arrivi un messaggio più diretto, più riconoscibile e facilmente leggibile.

La cronaca dei femminicidi restituisce un quadro doloroso fatto di storie sommerse, in che modo questo contesto sociale influenza la tua ricerca e orienta la scelta dei simboli e delle immagini nei tuoi lavori?

Mi influenza in modo totale. La quantità di notizie che ci arrivano da fuori, e quelle che ci riguardano personalmente, mi ha permesso negli ultimi anni di trovare la giusta comunicazione per mettere in atto questo processo creativo. Ho trovato la mia cifra stilistica per urlare.

Il tuo linguaggio pop sembra avvicinare il pubblico a un tema difficile senza attenuarne la gravità, come riesci a trovare l’equilibrio tra ironia visiva e responsabilità civile del messaggio?

Cercavo da sempre un modo per parlare della violenza sulle donne, fin quando una dichiarazione d’amore dolorosa “ti ago” mi ha acceso la scintilla e ho visualizzato il modo di comunicarlo. Se funziona spazio forma colore il messaggio arriva. Il lavoro è quello.

Manifestoporno mette il visitatore di fronte a uno sguardo che interroga e non concede protezioni, qual è secondo te il ruolo dello spettatore nel processo di riconoscimento dei segnali che precedono la violenza?

Lo spettatore va educato, le cose vanno spiegate, bisogna parlare, scambiarsi, comunicare. Manifestoporno è un’installazione forte ma il messaggio non è subito riconoscibile, lo spettatore va accompagnato verso una lettura giusta, verso una visione corretta e da lì può scaturire il processo di riflessione comprensione e trasformazione

Nei tuoi lavori la parola assume una funzione performativa e diventa una sorta di mantra che incide la memoria, come scegli le frasi che accompagnano le opere e quanto la dimensione linguistica contribuisce a costruire consapevolezza?

Mi piace molto giocare con i doppi sensi, con i nonsense, con l’ironia e la leggerezza nel quotidiano. Siamo immersi in una società veloce, che corre, non si interroga, non riflette, non si ferma, ho dovuto fare i conti con questo e mi sono domandata: come faccio a dirlo? Nella maniera più diretta, chirurgica, tagliente, una parola, una frase pulita, netta, ripetuta ossessivamente che come un mantra, appunto, ti rimane in testa.