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INTERVISTA A PINO SCOTTO – “Dog eat dog” il nuovo album

È uscito “Dog eat dog”, il nuovo album di Pino Scotto, icona fondamentale del Rock nazionale


Il grintoso rocker incide il primo 45 giri con i Pulsar, alla fine degli anni ’70; dopo qualche tempo diviene frontman dei Vanadium, la heavy rock band più importante della scena italiana, con cui realizza otto grandi album, sette di questi al ritmo di uno all’anno. Nel 2003 torna con un nuovo progetto: i Fire Trails. Da diversi anni solista, Pino Scotto dà vita, solo poche settimane fa, al suo ultimo – si fa per dire – lavoro discografico: “Dog eat dog”, una dolce scarica adrenalinica tra ballate heavy-blues e martelli sonori.


Pino, culturalmente e musicalmente parlando, non credi che – oggi – nel mercato discografico, la “guerra tra poveri”, di cui si sente traccia in “Dog eat dog” (brano che dà il titolo all’album), sia fatta dai milionari che se la comandano a suon di canzoncine leggere, mascherate con Marshall o Vox e Gibson Les Paul distorte?
Non credi che, almeno in Italia, la gente confonda sempre un po’ di più l’anima con il dilettevole?

«“Dog eat dog” (Cane mangia cane). Quello di cui tratto io in questo testo, ma in generale in tutto l’album, sono gli sporchi giochi del Potere; sporchi giochi del Potere in cui c’è anche la Musica, ci sono anche l’Arte e il divertimento. L’arte quella falsa, naturalmente. Il Potere che usa le menti funzionali per sottostare ai propri sporchi intrallazzi. Basta vedere anche che, nonostante questa Pandemia e tutti questi morti, stanno approfittando anche di questo per prepararci ad una nuova dittatura, a nuove regole a cui sottostare o t’attacchi… o t’attacchi al tram.»

Se il cane mangia il cane, l’uomo mangia l’uomo e il cane è il miglior amico dell’uomo, nella cultura moderna e in questo presente di politiche corrotte, chi sono i fantasmi da combattere e chi è il miglior alleato di Pino?
Credi ancora che, in questa disumana e lobotomizzata società, la musica possa essere l’infermiera delle ferite causate dai proiettili della stupidità?

«I fantasmi, quelli malvagi, quelli corrotti, quelli da combattere, chi sono? È il Potere… Il solito Potere, il potere dell’apparire, il potere del successo, il potere dei soldi. No? E, naturalmente, sta sempre all’intelligenza umana capire da che parte stare. Però la Storia ci racconta che siamo messi male, non per niente siamo il Paese più ignorante d’Europa e si vede da come funziona la politica: abbiamo una massa di bastardi infami che negli ultimi cinquant’anni hanno distrutto il Paese, hanno saccheggiato questo Paese, l’hanno svenduto e sono ancora lì e non riusiamo a mandarli via! Per quanto riguarda la Musica, l’Arte in generale, io penso che sia l’unico lato buono che possa salvare le menti e le anime delle persone.»

Ti va di raccontare come sono andate la pre-produzione e la produzione del nuovo album “Dog eat dog”?
Hai ceduto alle nuove tecnologie o hai preferito rimanere sul piano analogico?
Te lo chiedo perché le riprese del disco sembrano avere un ambiente molto ravvicinato, una room che non crea particolare distanza; piuttosto risalta una nitidezza valvolare, inglese, calda e feroce. Sbaglio?

«La pre-produzione di quest’album… Eh… Io sono sempre stato libero, mi sono fatto 35 anni come operaio in fabbrica per essere libero e nella mia musica sono stato sempre e solo io a decidere, nel bene e nel male. Questa volta ho fatto proprio tabula rasa e ho cercato di scrivere pensando di fare un album come negli anni ’70, sia a livello di produzione, sia a livello di scrittura. Ho cercato di scrivere dei brani senza guardare al genere, senza guardare all’attitudine; naturalmente dentro c’è sempre il Rock! Ché poi il Rock vuol dire il Blues, vuol dire il Prog che c’è dentro, vuol dire il Metal, vuol dire il Rock and Roll. Ho cercato di fare 11 tracce – a parte Don’t be looking back, cover dei Vanadium – che raccontassero – anche se è un po’ ambiziosa questa cosa in un album solo – come mi piacerebbe sentire un album del mio artista preferito: brani che vanno dal Rock degli anni ’70 fino a oggi; quello che piace a me, naturalmente.
Per la produzione, effettivamente, sono stato molto, come dire… “fatto in casa” e mixato quasi analogicamente e penso che da oggi in poi seguirò questa strada.»

Sicuramente, da persona vera e coerente, avrai affrontato le registrazioni con entusiasmo e trepidazione. Per questo ti chiedo un tuo punto di vista sul rapporto tra emozione, professionalità, profitti, violenza gratuita e “appropriazione indebita di palchi”, da parte di sedicenti idoli, usciti da Talent televisivi, a cui per ammantarsi della definizione di “talento” non manca solo la “o”.
Come saneresti questa “disgrazia” artistica e culturale?

«Io ormai, saranno più o meno vent’anni – dopo aver fatto un po’ di pause dallo scioglimento dei Vanadium, già dal mio progetto solista, i Fire Trails – che faccio uscire un album ogni due anni e mi faccio un anno e mezzo di tour; l’ultimo, che è finito a ottobre, è stato di circa 140 date e più o meno è sempre quella la quantità. Tutte le volte che affronto la scrittura di un nuovo album, tutte le volte che affronto l’entrare in studio, registrare, cominciare a curare la produzione, cominciare a cambiare qualcosa degli arrangiamenti già fatti anche quando sei in studio, nel momento stesso in cui i brani li senti suonati veramente… questa è la cosa più emozionante, secondo me e penso che senza questa emozione non riuscirei a fare i miei album.
Come sanare questo “tsunami artistico”? Niente… innanzitutto facendo tabula rasa di tutti ‘sti talent dove fanno solo karaoke! Credetemi, quelli bravi ci sono, ma non li prendono là dentro! A loro fanno comodo quelli che vanno lì, gli fanno firmare quando pisciare, quando cagare, gli fanno cantare quello che vogliono, gli fanno fare il karaoke, tanto lo sanno che, quando escono da lì, quattro dischi li vendono! Perché poi questi programmi se li sono inventati le etichette discografiche per vendere quattro copie! E niente… sarebbe da fare tabula rasa di tutte ‘ste schifezze e magari farne uno o due, al massimo, ma di quelli fatti bene, con giudici veri e con i ragazzi che vengono lì con brani propri, scritti e cantati da loro. E poi, musicalmente, la ricetta la dico da anni: torniamo al Blues! Torniamo al Blues e riscriviamo la Storia da capo. Lo possiamo fare anche noi italiani: abbiamo ragazzi e ragazze bravissimi proprio! Questa potrebbe essere una soluzione.»

Non ti pare che il Rock, oggi più che mai, sia combattuto tra una coerenza storica e una moda venduta all’asta?
Come riconosce, Pino, il personaggio autentico, vero, da quello che ci prova solo per apparire?
Ci sono anche dei rockettari prestati al Pop?
Per te, riconoscere un vero rocker è solo una questione di suono o credi anche nell’attitudine?
Secondo te, in Italia, dal Prog ai cantautori, chi sono stati quelli che hanno realmente dato un’impronta rock?

«Sicuramente, in tutti questi anni, ho visto un sacco di persone che si sciacquavano la bocca con la parola “Rock” e poi, alla fine, sono andati a fare tutti delle canzoncine di merda proprio! Gente che si è venduta al Sistema, come tutti quegli esseri umani che, a un certo punto, si vendono l’anima per far soldi e l’Arte in generale non è diversa da tutto il resto. Niente… io dico sempre che “le palle si vedono a lunga distanza” e io ne ho visti pochi in tutti questi anni; alla fine li ho visti tutti andare al Festival di Sanremo. Anche a me lo avevano proposto un bel po’ di anni fa. Basta vedere Peluche… (così definisce, ironicamente, Piero Pelù, n.d.r.), Piero Peluche che ha sputato sempre addosso alla televisione e poi quest’anno è andato a far lo scemo a Sanremo. Son tutti uguali! Ne conosco pochi con le palle! Poca la gente che crede veramente nella Musica, non la chiamiamo Rock, chiamiamola Musica, la Musica quella buona, insomma. Perché c’è anche del Pop fatto bene, anche se è fatto solo per vendere.
Il Rock non è solo musica, il Rock è un’attitudine, è un modo di vivere, è un modo di pensare, è un modo di comportarsi, è un modo di agire. Questo è il Rock, per me! E tutti mi dicono: “Ma tu hai sempre resistito!”. Io non ho resistito. È come la storia della rana e lo scorpione: io sono così! Credo in me, in quello che faccio, credo in una vera Democrazia, nella Giustizia, quella vera, tutto quello che non c’è in Italia, in poche parole.
E niente… band del passato sono anni che non riescono più a fare un disco decente, però negli anni ’70 ci sono stati grandi cantautori, come Guccini, De Andrè, quel cantautorato di classe, schierato e poi quelle band Prog importanti: PFM in primis, gli Area, il Banco… ce ne sono tante di quelle band e poi, purtroppo, è stato proprio una ventata di fumo e si è perso tutto: anche loro vivono sulle eredità del passato. È questo il grande problema: manca l’attitudine, manca il patto di crederci veramente. Lo so che è dura, perché è dura resistere, però manca quello, è quello il vero problema.»

In “Before it’s time to go” ho notato la stesso durezza malinconica che si potrebbe attribuire a “Goodbye to Romance” di Ozzy Osbourne.
Il suo rapporto con il fedele chitarrista Randy Rhoads è Storia.
Quali sono stati l’impatto e il muro emotivo da abbattere, o da tirare su, in questa bellissima dedica a Lemmy? (Lemmy Kilmister, fondatore e leader dei Motörhead, n.d.r.).

«“Before it’s time to go” è dedicata a Lemmy nel senso che io, il primo tour con lui – con i Vanadium – l’ho fatto nell’85 e poi ne ho fatti altri due io da solo come Pino Scotto. Avevamo la grande passione per il Blues, si è creato subito un forte rapporto di amicizia. Quando è morto, io la notte stessa l’ho sognato e ho scritto un brano che si chiama “The eagle scream” (presente sul canale YouTube PINO SCOTTO OFFICIAL, n.d.r.). La notte in cui è morto ho sognato che si era trasformato in un’aquila e volava via… C’è anche un video dedicato a lui che faceva parte di “Live for a dream” (terz’ultimo album solista, n.d.r.)».

In “Don’t waste your time” (singolo) lanci un messaggio soprattutto ai giovani: quello di “non sprecare il proprio tempo” nella vita, perché questa potrebbe cambiare o finire in un attimo. A te è capitato di ricevere una notizia spaventosa, scioccante: la diagnosi di un male incurabile che si è scoperto, poco dopo, essere stato “solo” un errore medico. Quindi è corretto dire che il tuo messaggio è di godersi la vita, di non sprecarla?
Metaforicamente la vita può essere come un solo di chitarra: sei il protagonista, ma hai un tempo.
Credi che i giovani, quelli di oggi, abbiano un po’ perso il senso della vita o che ne abbiano solamente uno diverso? Non ti sembra, secondo la tua esperienza, che almeno le ultime due generazioni abbiano perso anche la necessità di vivere la strada, e quindi la possibilità di crearsi un’esperienza propria, individuale, oltre che di perdere tempo in “esistenze parallele”, come social e videogiochi?

«“Don’t waste your time” è nata, come si capisce dal video ufficiale, da un errore medico. Avevo un’influenza che non passava, sono andato a fare una radiografia e non si è mica sbagliato ‘sto grandissimo figlio di…?! Vabbè… S’è sbagliato! Ho passato una notte d’inferno quando ho portato la lastra al dottore! Il giorno dopo mi ha fatto fare una tac ed era bronchite cronica, in poche parole! Per quarant’anni mi sono fumato tre pacchetti di Lucky Strike al giorno, mi son bevuto uno, anche due bottiglie di Jack tutti i giorni, senza parlare delle schifezze che… vabbè. E il video racconta questa redenzione, questa voglia di redimermi dai miei eccessi, chiamiamoli così. Ma non mi vergogno, non mi pento di niente, rifarei tutto quello che ho fatto. Fortunatamente sono ancora vivo! E il brano parla di quello, in poche parole, di non perdere tempo nella vita; non perdere tempo se hai qualcosa d’importante da fare, falla subito, non aspettare domani!»

Oggi, per i coerenti come te – che si battono e si sbattono per un punto di vista trasparente e diretto – “Sesso, Droga & Rock’n Roll” come potrebbe essere tradotto, dal momento che ormai è un motto usurpato anche dalla cultura Pop più comune?
Credi che la tua sincerità possa riuscire a trovare una nuova formula, una definizione, a una vita fatta di Rock?
Qual è, oggi, il motto di Pino Scotto?

«La cultura del ‘Sesso, Droga e Rock’n Roll’ è stata presa anche da questi nuovi Trap, ragazzini giovanissimi che cantano “Io mi pippo la cocaina”, “Io mi trombo qua, mi trombo là, porta tua sorella, porta la tua amica”… Ancora si pisciano a letto questi qua. È andato tutto a puttane proprio. Una Storia di cinquant’anni di credibilità è andata a puttane in mano a questi ragazzini che ancora se la fanno addosso. S’è perso ogni senso della realtà proprio. Niente… Boh… Non lo so… Sinceramente non te lo so dire. Sembra banale, ma bisognerebbe ritornare a prendere in mano i valori, le cose vere che contano nella vita e mandare affanculo tutte le stronzate inutili. E, in più, svegliarsi, aprire gli occhi, fare delle vere battaglie politiche, sociali, per riprendersi in mano la dignità di questo Paese, la dignità degli italiani, ché l’abbiamo venduta per 30 denari proprio! Questo manca, manca la coerenza del popolo! E, naturalmente, si potrebbe ricominciare anche dall’Arte in generale, dalla Musica: riprendersi in mano l’Arte quella vera, quella che è fatta col cuore, con le palle e con dignità! E invece anche quella è andata a finire in mano solo a papponi della Musica, a mafiosi della Musica, a programmi di merda.
Perciò il motto di Pino Scotto è sempre quello: “DATEVI FUOCO, BASTARDI!”»

Anche le date promozionali del tuo tour sono state rimandate a causa della Pandemia. Quando riporterai il tuo Hard-Rock nella dormiente città dei Papi?

«Per quanto riguarda i live, io dovevo partire con le date da Genova, Piacenza, il 17 di aprile, e fino a settembre avevo già 48, 49 date e invece è tutto bloccato, purtroppo (a causa del Covid-19, n.d.r.). Per esempio a Milano c’è il Legend, locale storico, e più di 80 persone non possono entrare, ci sono le persone con le mascherine, sedute a distanza mentre tu sei lì sul palco che butti giù l’anima e vedi ‘ste persone davanti con le mascherine… mi scappa da ridere! Non esiste… Ma io penso anche a quelli all’aperto, con 1000 persone: tenerle tutte a distanza, ma come fai? È un delirio. Siccome non esiste questo mestiere, in Italia, è stato quello più penalizzato, da sempre. Io capisco che stiano cercando di dare un colpo alla botte, come si dice, per riprendere un po’ a lavorare tutti, come il fatto dei Drive-in, vedere i concerti in macchina che cazzo vuol dire? È come trombare con 4 preservativi sull’uccello: non esiste proprio!
Avevo la data a Roma! Speriamo che questa merda (il Corona Virus, n.d.r.) vada via prima possibile, perché è quello che stiamo aspettando tutti, che sparisca completamente e da quel momento si comincerà a fare i conti, quelli veri. Speriamo di tornare presto a Roma; poi io a Roma ho suonato in tantissimi locali: Stazione Birra, Jailbreak, Qube e altri, poi da Davide, il mio amico del Kill Joy, dove vanno un sacco di bikers che sono un po’ il mio mondo.
E poi sono molto legato a Roma: negli anni ’70 abitavo in Viale Eritrea, ci ho vissuto per un anno e mezzo…
E niente… cosa vi devo dire? Innanzitutto l’album “Dog eat dog”, oltre che sulle piattaforme digitali, finalmente è anche fisicamente nei negozi come cd e speriamo di poter tornare presto sui palchi! E poi… ROCK ON! E UN ABBRACCIO A TUTTI!»

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Giada Ferri intervista Pino Scotto per RomaSportSpettacolo.it