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I perché di quattro interviste

Circa un mese fa, avvicinandosi la data del “derby Champions” di questa stagione così unica e irripetibile, ho pensato bene di scrivere una storia parallela delle tifoserie romanista e laziale; come in “Vite dei Cesari” di Svetonio, mi stuzzicava l’idea di comparare le due specie mammifere. Aiutato dall’amico Lorenzo Stillitano, ho elaborato un piano. Innanzitutto, le domande, che dovevano individuare punti focali, identitari, utili a capire dove si differenziavano i due ethos e dove, invece, andavano a sovrapporsi. Sedici domande non mi sono sembrate troppe, e quasi minime per cavare un ragno dal buco. Poi, si doveva individuare i quattro tifosi da intervistare. Quattro perché ha prevalso il criterio della gradazione generazionale, onde avere una visione diacronica ampia, e in seconda istanza, ovviamente, un minimo di competenza. Così, il primo nome che mi è venuto in mente è stato quello del giornalista Maurizio Martucci, che nel 1996 diede alle stampe, quasi in contemporanea col mio “Campo Testaccio”, il primo libro avente una tifoseria come soggetto, ovvero “Nobiltà Ultras”. Straordinario che, senza che l’uno sapesse dell’altro, due simili volumi siano usciti a distanza di pochi mesi, offrendo a Roma una primogenitura nello specifico. Martucci lazialissimo al 100%, il sottoscritto al 51% per cento. E vi dico subito che domenica arriverà un innocuo pareggio, vedrete…
Da contrapporre al cinquantenne Martucci, ho pensato all’amico Roberto Colozza, classe 1979, al quale avevo appena prestato del materiale per un suo studio accademico sul tifo romanista. Il professor Colozza, che insegna alla Tuscia ed è un esperto di “anni di piombo”, si professa uno specialissimo “ultrà di Roma”, intesa come la città eterna superiore Urbi et Orbi. Su questo piano, lo sono anch’io un tipo non ortodosso, nella misura del mio essere simpatizzante della ASR dal 1970, oramai giunto alle soglie della prima media. Costoro, il Martucci e il Colozza, nello sviluppo del progetto originario sono stati separati e indirizzati alla rivista Contrasti. Per motivi di spazio, le domande per loro sono diventate dieci. Ma, al fine di inverare quella “tac” di cui vi dicevo nella quarta puntata sulla storia delle tifoserie, vi invito a fare una visitina al sito di Contrasti e leggere l’articolo; un po’ come la faccia nascosta della luna: sarebbe un peccato non metterci piede.
Fernando Acitelli e Sandro Portelli, che rispettivamente sono stati il primo e l’ultimo intervistato, con tanto di registrazione e successiva rielaborazione in fase di scrittura, rappresentano l’aspetto forse meno competente e però più “alto” nel quartetto double face Roma/Lazio. Fernando lo conosco da trent’anni, anche prima che ottenesse quel suo meritatissimo successo editoriale e di critica col volume “La solitudine dell’ala destra”. La sua visione del mondo del calcio è “antica” (lui classe 1957) ma al contempo modernissima. Questo perché è la visione di un Poeta, e come tale non soggetta alle usure del Tempo. Fernando, quando parla o quando scrive, induce alla riflessione. Le sue parole sono stillanti e spinose, come un frutto ocra e vermiglio di cactus, direi. L’anarchismo e il lirismo le compenetrano. C’è originalità in ogni posizione. Un percorso mentale labirintico e unico, un tantino verboso ma sempre sorprendente.
E, in questo nostro immaginario scenario di OK Corral da Far West – tale è ogni derby che si rispetti – chi gli ho messo di fronte? Il pistolero Alessandro Portelli, classe 1942, un avversario insidioso nella polvere di Tombstone. Mentre per Acitelli è stato facile vedersi una sera all’Appio-Tuscolano davanti a una pasticceria di celebratissimi dolci di carnevale, e poi dirigere verso un ristorante non così lungi da Trigoria, con Portelli la registrazione è stata effettuata nella Casa della Memoria e della Storia, che da alcuni lustri sta come un masso erratico in Trastevere nei pressi del carcere di Regina Coeli. Fateci una capatina, perché è come operare un salto all’indietro nel tempo, a quegli anni dell’attivismo culturale “vero” di una sinistra “vera”, cioè comunista e fortemente ideologizzata: il contrario del PDI di oggi. Leggendo le risposte di Portelli, per altro egli stesso un pioniere della storia orale in Italia grazie agli studi sugli operai metalmeccanici di Terni e sulla vicenda delle Fosse Ardeatine, vi accorgerete di quanto esse siano imperniate su una dicotomia di fondo: destra o sinistra. Ed è interessante il parallelo con Acitelli che, da bravo anarchico e Poeta, le dicotomie le salta a piè pari proprio.
Ed ora, fischi il suo motivetto il caro Ennio, e mano alle colt…


1. Come sei diventato tifoso della tua squadra e quale importanza ha questo fatto nella tua vita?

PORTELLI
Mio padre aveva militato nelle giovanili della Lazio negli anni trenta. Mi portò a vedere un Lazio-Juventus nella stagione 1951-52 allo Stadio Torino, vincemmo due a zero, e da lì si formò la mia fede laziale. Essa influisce molto sul mio umore. Nel senso che so come andrà la settimana sulla base del risultato della mia squadra. Fino all’avvento del Covid, sono andato con regolarità allo stadio. Per molto tempo frequentando le curve, poi con mio padre ci siamo trasferiti ai distinti. Infine, nel tentativo di allontanarmi dal settore dei tifosi razzisti, con mio figlio Matteo ho fatto la scelta di abbonarmi alla tribuna Tevere.

ACITELLI
Ho ereditato la passione per il calcio da mio padre Italo, la cui storia calcistica è molto bella. Iniziò nella “Giovinezza”, squadra del Pigneto che giocava al campo “Sangalli” a Tor Pignattara. Con quella maglia – rossa e blu – debuttò in prima squadra a sedici anni, nel 1932, in Quarta Serie. In seguito, la “Giovinezza” fu sciolta per illecito sportivo e vennero emissari della Lazio a prendere il meglio: scelsero mio padre. Nella Lazio, con i “Boys”, indossava gli scarpini dell’idolo di allora Fantoni II, ma quella storia durò poco: spostarsi da Torpignattara al Cinodromo della Rondinella era un’impresa, e mio padre era già orfano e aveva necessità di lavorare. Il Campo Appio, primo terreno di gioco della Roma, era a breve distanza dalla sua casa e così era sempre lì e osservava da vicino i giocatori. Da adulto, nel 1951, divenne socio vitalizio della AS Roma. Tutto questo epos famigliare ha contribuito a che io diventassi un cantore del calcio, e naturalmente tifoso della Roma.

2. Ci sono stati momenti che per te hanno assunto un significato speciale?

PORTELLI
Mi viene n mente subito Giuliano Fiorini da Modena, che il 21 giugno 1987 segnò al Vicenza il gol che ci consentì di andare agli spareggi di Napoli ed evitare la caduta in Serie C. In seconda istanza, il giorno di Lazio-Campobasso. Ricordo che stavo in partenza per gli Stati Uniti e, anche lì, se non si vinceva la Serie C era dietro l’angolo. Partii per l’aeroporto Leonardo da Vinci subito dopo la rete di Fabio Poli. Un altro momento di grande pathos è stato un Lazio-Como della stagione 1975-76 in cui perdevamo due a uno. Ero andato all’Olimpico con mio padre, che si sentì male e temetti il peggio. Ma tutto finì bene, giacché si riprese e nel finale vincemmo tre a due con un gol della riserva Ferrari. Ho avuto nel mio portafogli il biglietto di quella partita per molto tempo. E poi, ovviamente, i due scudetti. Il primo lo collego moltissimo alla vicenda del referendum indetto dalla DC per l’abolizione del divorzio. All’epoca, scherzavo che ero l’unico socio iscritto alla “Associazione Laziali Democratici per il No”. Il secondo scudetto l’ho vissuto con mio padre. Stavamo sotto la pioggia, aspettando che terminasse la partita della Juventus a Perugia. Ricevuta la notizia della vittoria dei perugini al “Curi” dall’altoparlante che trasmetteva la cronaca in diretta, invece di partecipare all’entusiasmo generale mi assalì il seguente pensiero: “L’anno prossimo non potrà che andare peggio!” Diciamo che, per quel che mi riguarda, anche nei momenti di conflitto generazionale, il calcio, lo sport, è stato un terreno di comunicazione importante con mio padre: un modo per dire che ci si voleva bene. Una condivisione vissuta senza abbracci ai gol, molto meno “fisica” rispetto a quella che ho instaurato con i miei figli.

ACITELLI
Vi sono due aspetti: il primo era che assistendo alle partite cercavo di migliorarmi stilisticamente vedendo in azione i miei idoli in campo; l’idea era di cogliere le loro finezze, le loro acrobazie, il loro temperamento. Era indubbiamente trarre qualcosa di utile da quelle immagini, un sogno, perché calciatori si nasce. Il secondo aspetto, ma questo quando ero un po’ più grande e ormai fuori da ogni sogno di diventare un calciatore, era il “sospendermi” dalla vita, tenere lontane le preoccupazioni per i novanta minuti. Se poi si pensa che una partita iniziava diversi giorni prima, la possibilità di sfuggire agli agguati della vita era grande. Anche per mio padre funzionava così.

3. Esistono una “visione del mondo” laziale e una romanista? Sapresti definire uno “stile di vita” laziale o romanista?

PORTELLI
Nei romanisti c’è una dimensione di “arroganza imperiale” che è abbastanza assente nei laziali. Per l’appunto, noi si vince lo scudetto e già si pensa a un futuro meno prodigo. I romanisti vincono lo scudetto e credono sia l’inizio di un impero destinato a durare in secula seculorum. Salvo poi dare le colpe del fallimento a contingenze inique: arbitri, congiure nordiste, allenatore improvvisamente diventato scemo, e via di seguito. Noi abbiamo una storia che si iscrive nella traccia dei perdenti cronici. Gli stessi laziali di marca fascista, oggi, non sono i fascisti imperiali che si trovano dall’altra parte. Essi appaiono lumpen nell’atteggiamento, incarnano la destra meloniana. Sono i nuovi fascisti di borgata, non i vecchi fascisti dei Parioli. Il che è paradossale, in quanto la AS Roma per tradizione è la squadra popolare e la SS Lazio è spesso identificata con la borghesia. Però, il tipo di destra che si esprime nelle due compagini è differente. Tra l’altro, noi della vecchia scuola abbiamo un po’ di difficoltà a fare i conti con la “lazialità” di questi ultimi anni. La “lazialità” che ho in testa io è quella di quando la Lazio frequentava i bassifondi della A e sovente giocava in B: la cosiddetta “Lazietta”. Questo concetto della Lazio dei perdenti stava ben dentro la mia quotidianità, al punto che mi piaceva ripetere agli amici: “Nella vita mi va tutto bene, per cui un pochetto di sofferenza me lo concentro tifando per la Lazio allo stadio”.

ACITELLI
Le “visioni del mondo” sono degli accomodamenti continui. Quello che si credeva ieri oggi s’è di molto scheggiato. È il divenire che modella i nostri pensieri. A me basta sapere che si è semplicemente tifosi, ognuno conosce la propria storia e sa da dove proviene: si può diventare più morbidi o più intransigenti, ma si rimane tifosi. Sia i romanisti che i laziali, sposando una maglia, hanno l’opportunità di crearsi un mondo protetto, fatto di attori principali e stracche comparse: in un simile affresco si vive bene. In più, custodire la galleria degli antenati lo ritengo un valore: a me Guido Masetti e Rui Patricio o Ferraris IV e Smalling trasmettono la stessa intensità, con la differenza che i due defunti li devo difendere ancora di più e lo faccio con il ricordo: vedendo adesso il portoghese e l’inglese, ripenso a quei due grandi giallorossi degli anni trenta. Quanto allo stile, mio padre si riferiva sempre a quello di Fulvio Bernardini, un elegantone anche fuori del campo. Cos’è oggi l’eleganza? Quella vera è un reperto archeologico. Non è che acquistando capi costosi, esibendo la ricchezza, si è eleganti. L’eleganza è interiore, si sente dalle parole e s’avvista dai gesti.

4. La rappresentazione che le Muse (cinema, letteratura, musica) hanno dato delle due tifoserie ti suggerisce qualcosa? Nel 2000 la AS Roma era la squadra con più riferimenti nella storia del cinema: 70 titoli. Poi veniva la Lazio: 50.

PORTELLI
La spiegazione sta nel fatto che l’industria cinematografica sta a Roma e molti attori e cineasti professano, e divulgano con piacere, la loro fede romanista. La figura principe che mi sovviene è quella di Nino Manfredi, che va allo stadio a tifare per i lupi nel film di Ettore Scola “Brutti sporchi e cattivi”; un’opera che non mi piacque affatto e che uscì nelle sale intorno al 1976. Se anche in queste arti, così importanti per la vita civile, è stata tramandata l’immagine del laziale fascista ciò è dovuto al fatto che la stessa tifoseria e le vicende societarie hanno dato un contributo. Non dimentichiamoci che, negli anni sessanta, abbiamo avuto alla presidenza il missino Ernesto Brivio, meglio noto col soprannome “l’ultima raffica di Salò”. Si potrebbe controbattere che la Roma ha annoverato un Giuseppe Ciarrapico subito dopo il democristiano Dino Viola, ma la cosa non ha inciso nell’immaginario, a sufficienza consolidato.

ACITELLI
Non mi fido molto delle statistiche e posso dire che questa valutazione è anche generosa nei confronti della Lazio. Se si vedono i film degli anni cinquanta, non c’era una sola volta che l’attore nei panni del tifoso non fosse della Roma. Sugli spalti, Mario Carotenuto manifestava tutto il suo amore per i giallorossi; Vittorio Gassman ne “L’audace colpo dei soliti ignoti” cita la Roma davanti al commissario. Pasolini in “Una vita violenta” cita Egisto Pandolfini, e nello stesso romanzo riporta il bar di Masetti a largo Argentina. Inoltre, “La padrona di Raggio di Luna” è un musical di Pietro Garinei e Sandro Giovannini, entrambi tifosi della Roma. Il riferimento è a Arne Selmosson, il classico svedese che aveva indossato prima la casacca della Lazio e poi quella della Roma. Quindi, c’è da dire: chissà perché sulla scala di casa di ‘Ferryboat’ (Tiberio Murgia) nel film “I soliti ignoti” c’è scritto col gessetto bianco W LA ROMA. La Lazio mediaticamente è venuta alla luce con lo scudetto di Maestrelli e poi con le televisioni private, penso ad esempio alla trasmissione di Michele Plastino “Gol di notte”. Uno snodo autentico c’è stato con l’avvento di Sergio Cragnotti alla presidenza. I titoli vinti e la sua capacità d’annunciare sui network l’arrivo di certi campioni hanno fatto impennare, tra la gente, la dichiarazione di fede verso la Lazio. Comunque, oggi gli attori delle fiction sono quasi tutti tifosi della Roma, da Massimo Ghini a Pierfrancesco Favino a Valerio Mastrandrea a Corrado Guzzanti, tutti sotto l’ala protettiva di Antonello Venditti. Per la Lazio, invece, a tenere alto il vessillo biancoazzurro sono, tra gli altri, Enrico Montesano e Pino Insegno. Un caro amico di Testaccio mi ha riferito della passione del regista Pietro Germi: in un Lazio-Bologna alla fine degli anni cinquanta, con i felsinei avanti grazie a Pascutti, fecero seguito azioni travolgenti del carioca Humberto Tozzi, che portò la Lazio alla vittoria. Al gol del vantaggio, Germi, per la gioia lanciò in aria il suo cappello. Il mio amico era dietro di lui ed osservò benissimo la scena.

5. Potresti tracciare un “tipo psicologico” di tifoso romanista e uno laziale? Ci sono stati giocatori che bene si sono identificati in questo modello?

PORTELLI
Il tifoso romanista è bene riassunto e si identifica in una sola espressione: “la Maggica”. Il tipo laziale in cui mi riconosco è l’alternativo, il perdente. Dopo di che, è una realtà che noi abbiamo una curva radicata e organizzata in stile neofascista molto più rispetto a tante altre. Questo fenomeno della fascistizzazione della tifoseria militante della Lazio Calcio è avvenuto in un contesto di penetrazione capillare, negli ultimi trenta o trentacinque anni, dell’ideologia di destra nella società civile e negli stadi italiani. Sotto il profilo psicologico, invece, il laziale, nella misura in cui “spera di non perdere”, io lo vedo più pessimista del romanista, che al contrario si aspetta di vincere e anzi lo pretende. Tuttavia, non si tratta di masochismo classico, in quanto comunque perdere non ci fa piacere. Un aneddoto mio personale riassume in forma traslata il concetto suddetto, che sembra evocare una sua contraddizione interna. Ad una mia studentessa, che poi si è laureata a Harvard, piace raccontare che, quando tenevo lezione, non amavo stare seduto e mi agitavo in piedi. Un giorno, mi capitò di dire: “Sono come i centrocampisti della Lazio: non trovo la posizione!”

ACITELLI
Io avevo un debole per Giorgio Chinaglia. Questa mia ammissione potrebbe risultare grave, ma la carica di ‘Long John’, il suo attaccamento alla maglia, il sentirsi il vero trascinatore, m’affascinavano. Parlo anche da Poeta e, come si sa, un lirico si smarrisce dinanzi alla Bellezza e a certi comportamenti spavaldi e che sogliono esprimere una diversità. La Roma, in quei primi anni settanta, non aveva un corrispettivo eroico. Anche se in quella Roma di Helenio Herrera vi erano esempi sublimi con la classe di Ciccio Cordova e le geometrie di Giancarlo De Sisti, tutto questo non mi bastava. Per “Picchio” sentivo un’autentica devozione. era sempre nei miei pensieri per sapienza tattica ma anche per lealtà sportiva. Eppure, anche con tutti questi affreschi giallorossi, mancava il capo, il gesto, la “sublime provocazione” che sa accarezzare il cuore. Rimane di Chinaglia soprattutto il gesto di rivolta verso la panchina della Nazionale all’atto della sua sostituzione con Anastasi, ai Mondiali del 1974. Si può ipotizzare che egli pagò il fatto di non giocare in una squadra del Nord. Oggi, in un episodio di sostituzione, il calciatore che esce si limita a non salutare il mister ma, dentro di sé, probabilmente, cova una dose di rabbia contro l’allenatore molto più estrema di quella di Chinaglia. Oggi ci sono le “buone maniere” e si è omogeneizzati e allineati in tutto.

6. Se ti dico che la Lazio è “maschio” e la Roma è “femmina”, tu come reagisci?

PORTELLI
Non vedo nessi. Tuttavia, qui ho un aneddoto: una volta, una mia collega di università, Ida Magli, se ne uscì che il calcio è uno sport maschilista perché il suo fine è la penetrazione. Allora le dissi: “Primo, la penetrazione è reciproca, quindi piuttosto si dovrebbe parlare di sport omoerotico. Secondo, a differenza del basket, nel football c’è molto più spazio per i preliminari. Terzo, come scriveva Gianni Brera, la partita perfetta finisce zero a zero. Aggiungo a corollario che, per quel che mi riguarda, la partita perfetta è quella che ha come score Lazio-Fiorentina otto a due.

ACITELLI
La Roma è femmina perché il simbolo è la Lupa e questa allattò Romolo e Remo. Poi sopraggiunse anche Marte e dunque il carattere battagliero è della Roma. Naturalmente, stiamo alleandoci con il mito. Ma è bello, ogni tanto, uscire fuori dalla realtà e fantasticare, rimanendo distanti da tutto ciò che è 4-4-2 oppure 4-3-3, e così quel linguaggio ormai saccheggiato “fase di possesso, esterno alto, braccetto di destra”. La Lazio è venuta prima, come Adamo, ma qui siamo molto prima del mito, siamo nella Metafisica. Io rimarrei più ai dati inconfutabili, ovvero due date: 1900 e 1927. Se io, transitando per via Cola di Rienzo, sconfino in piazza della Libertà, so che lì di fronte è nato il mio amico Lionello Manfredonia, entro nel suo portone e quasi accarezzo quei muri. Rifletto, inoltre, che nessuno su tale fatto ne ha mai fatto una carezza interiore: sono io il primo a farlo. Dunque, ho il Tevere davanti e l’animo mi suggerisce un minuto di raccoglimento per tutte queste sensazioni. L’epica è bella soprattutto quando la si può toccare. Sfioro con la mano quel Mausoleo e penso: “Eccola, l’Epica!” E di seguito: “Ecco l’Epica Bigiarelli! Ecco quella di Ancherani! Ecco quella di Dos Santos, lusitano e artista e che morì giovane. Ecco dove viveva Manfredonia!” Allo stesso modo, se sfilo per via Principe Eugenio al civico 60, di fronte alla solenne Gelateria Fassi, devo per forza accarezzare il portone perché lì vi nacque Luigi Ziroli, attaccante di Roma, Palermo e Lazio. Lui segnò il primo gol ufficiale della Roma nella prima partita di campionato il 25 settembre 1927, due a zero al Livorno al vecchio Motovelodromo Appio. Ziroli morì in povertà nel 1968 e, per sopravvivere, faceva il parcheggiatore a Ostia. Dove erano, in quell’occasione, i dirigenti della Roma e della Lazio? Questo mi chiedo, ma non soltanto da poeta.

7. Roma repubblicana e Roma imperiale, forse che la SS Lazio e la AS Roma hanno attinenza con questo pesante passato?

PORTELLI
Un elemento molto forte dell’immaginario romanista è il desiderio di potere, che si esprime sotto forma di arroganza. Ma è pure vero che il simbolo dell’aquila ce l’abbiamo noi laziali. Ricordo l’episodio di quando i tifosi fascisti della Lazio aggredirono alla stazione di Trastevere i tifosi stalinisti del Livorno: aquile imperiali e fasciste, croci celtiche, cori e saluti nazifascisti da una parte, bandiere falce e martello e canto a gola spiegata di “Bandiera Rossa” dall’altra. Correva il 2005, se non sbaglio. I media fecero un gran baccano, perché l’evento per loro era ghiotto. Io, in quanto esponente di Rifondazione Comunista, ero stato delegato dal sindaco Walter Veltroni alla valorizzazione della memoria storica della città. A capo gruppo della maggioranza nel consiglio comunale c’era Silvio Di Francia, un ex di Lotta Continua. Siccome lui era laziale, decidemmo di fare un appello alla maggioranza silenziosa della tifoseria biancazzurra non contaminata dal virus fascista. Mandammo, io al mio indirizzario email e lui al suo, la petizione e raccogliemmo in poco tempo seicento firme online. Dopo di che, il sottoscritto, Silvio, Sandro Curzi e altri andammo a parlare con Claudio Lotito. Lui ci ricevette e parve non comprendere il nocciolo della questione. Cominciò a illustrarci il suo ambizioso progetto dello “Stadio delle Aquile”, e di quanto ne fosse orgoglioso, senza capire le nostre obiezioni a quella simbologia fascista. Continuava a dire che la politica non doveva entrare nello stadio, mentre noi insistevamo che allo stadio, come in ogni altro luogo, la politica poteva entrare, ma non il fascismo. Non so se faceva finta di non capire, o non capiva davvero; comunque, finì con un nulla di fatto.

ACITELLI
L’attinenza c’è ma di essa se ne occupano gli spiriti sensibili. M’interessava vedere cosa s’era mantenuto oggi dei tratti di personaggi dell’antica Roma. Negli anni, essendo un assiduo visitatore del Museo Nazionale Romano a Palazzo Massimo, delle Terme di Diocleziano, della Crypta Balbi, di Palazzo Altemps nonché del Foro, non soltanto ammiravo i volti di imperatori, filosofi e atleti, ma andavo in cerca di somiglianze con i calciatori e gli allenatori. Da qui lo stupore dinanzi al busto d’un senatore che era identico a Claudio Ranieri. E lo stesso mi capitava di cogliere imbattendomi in un altro busto, nel quale vedevo chiaramente Manlio Scopigno: entrambi erano senz’altro sulla linea della tradizione repubblicana, virtù e costumi, di Catone. Che Carletto Mazzone avesse il viso d’un centurione era per me un’evidenza. Mentre lo sguardo di Pompeo in un busto era uguale a quello di Cordova. Le labbra a cuoricino di Vincenzino D’Amico provenivano direttamente dalla dinastia Giulio Claudia e così, disperdendomi per quegli ambienti, provavo piacere a vedere che i volti contemporanei dei calciatori-divi s’erano già visti in epoca repubblicana e imperiale. Se m’aggiravo su Alessandro Nesta non potevo che pensarlo etrusco, visti i tratti e la carnagione scura: sì, lui per me era di Veio. Lui era dei Fabi, abili nel costruire trappole. Si trattava, in fondo, di “vite parallele”, ed era per me un gioco che aveva termine soltanto quando decidevo d’uscire da quei musei.

8. Qual è la squadra più “cattolico cristiana”, più bene accolta al Vaticano? O la domanda non ha proprio senso?

PORTELLI
Il San Lorenzo de Almagro, la squadra di papa Francesco. Non saprei. Ho l’impressione che alla Santa Sede tendano ad essere equidistanti. Così come i sindaci di Roma, che hanno sempre scelto la medesima via, a parte le opzioni personali.

ACITELLI
È un quesito che lascia margini soltanto alla fantasia. Ci si può trastullare ma rimane una domanda senza futuro. Tra i marmi della Cristianità non si possono operare delle differenze: là il Tempo, malgrado tutte le metafisiche evocate, fugge via più velocemente che altrove e si deve pensare al destino dell’anima. Un quesito: il «Damose da fa’» pronunciato da Karol Wojtyla durante un’udienza, e che ricordiamo in tanti, verso quale sponda pendeva? Beh, un animo un po’ da romanista ce l’aveva San Giovanni Paolo II… forse perché il suo connazionale Zbigniew Boniek aveva indossato la maglia giallorossa? Comunque, credo che difficilmente si possa penetrare l’animo, tormentato per il gravoso Officio, d’un Pontefice. Per gli alti prelati, sia nella versione paffuta e rubiconda che emaciata, si tratta di impenetrabilità e distanza e mi sovviene come immagine, chissà perché, il dipinto di Bacon su Innocenzo X. È bello fantasticare magari sul versante della Poesia, e così immaginare un Belli romanista e un Trilussa laziale, dichiarandosi agnostico il Pascarella e tifoso della Curva Sud Gigi Zanazzo. È probabile che in Vaticano ogni tanto s’oda: «Che fa la Roma?», ma saranno i dipendenti, coloro che vigilano ad ogni cantuccio della Basilica.

9. Curva Nord e Curva Sud rappresentano una reale antinomia di tropismo geografico e sociale? Nella tua esperienza, al nord romanisti e laziali sono visti alla stessa maniera, o li si distingue in base a qualche criterio?

PORTELLI
Io abito a Roma nord, alla Giustiniana, e l’immagine, in effetti, è un po’ questa. Corrisponde a un territorio più orientato a destra, in dettato della sua composizione sociale più borghese nella quale il verbo laziale si propaga più facilmente. Testaccio è rosso e notoriamente romanista, pure se si è recentemente borghesizzato anch’esso. Al di là del raccordo anulare, ci sono paesi che erano rossi e laziali come Civita Castellana o Genzano. Fino a qualche tempo fa, sul corso di Genzano c’era il circolo della Lazio e non c’era quello della Roma. I romanisti amano chiamarci da una parte “burini” e dall’altra “pariolini”. Ma i burini stanno sia a nord che a sud di Roma. Il tropismo qui c’entra poco.

ACITELLI
Credo che il romanista sia più accettato perché ha un modo di fare esuberante e ad ogni momento declama la propria fede, e questo piace al Nord. A Milano l’ho potuto constatare. Devo, però, dire che quando un simile atteggiamento perde la sua spontaneità e diventa plateale, da macchietta, può anche infastidire. È come se il tifoso romanista si trovasse sempre sulla spiaggia di Rimini. Questo, ovviamente, riferendomi ai miei tempi, mentre del tifoso odierno ne colgo l’eco ogni tanto, tra un Roma Point e l’entrata in una ricevitoria di scommesse. Credo che il tifoso laziale si sveli con più sobrietà, in un certo senso che “venga fuori piano piano”. Il linguaggio romano è virile, ha un suono inconfondibile, questa la sua bellezza. Tutte le differenze tra le due tifoserie si annullano quando si sta allo stadio. Sugli spalti il linguaggio virile romano li accomuna, anche se ognuno sta a custodire la propria storia.

10. Perché i laziali sembrano dare una maggiore importanza alla loro storia rispetto ai romanisti? O non sei d’accordo? È un dato di fatto che i libri scritti sulla SS Lazio negli ultimi vent’anni sono diventati sempre di più. E i tifosi biancocelesti hanno un supporto quasi incredibile di materiali storiografici che si chiama LazioWiki, mentre i romanisti non hanno sentito il bisogno di crearlo.

PORTELLI
La storia della Lazio è stata attraversata da una serie inusitata di tragedie. Vedo che non escono libri sulla Lazio di Vivolo, e neppure – e la cosa è abbastanza incredibile – su quella di Piola. Piuttosto, vendono bene le storie della Lazio di Tommaso Maestrelli, con eroi tragici come Luciano Re Cecconi e Giorgio Chinaglia. Oppure, vedono la luce volumi sulle Lazio di Montesi. All’opposto, ma sempre sulla traccia vittimista, si parla dello “scudetto del 1915”, che mi pare una storia davvero insignificante. Una figura come quella di ‘Long John’, a mio avviso, raccoglie tutto il meglio e il peggio della lazialità. Ma ha pure tutti gli elementi per costruire un romanzo popolare giocato sui termini della caduta e dell’ascesa, poi di nuovo la caduta senza fine. Penso all’autobiografia di Malcom X, il cui capitolo centrale si intitola “Icaro”. Infine, nella narrazione che ama il popolo biancazzurro c’è fortissimo il tema dell’origine, della fondazione. Pochi lo sanno, ma a piazza della Libertà, proprio lì dove sta la targa dedicata a Luigi Bigiarelli, il 29 gennaio del 1944 sicari fascisti assalirono Massimo Gizzio, uno studente già incarcerato sotto il regime e che stava partecipando a una manifestazione anti-tedesca. Morì due giorni dopo all’ospedale di Santo Spirito. Vedi, dunque, come la SS Lazio sia nata in un luogo che ha visto spargere il sangue di chi, in odio al nazifascismo, all’ideale della Libertà ha inteso sacrificare la vita.

ACITELLI
Non so se corrisponda al vero che sulla Lazio si sia scritto di più. Il problema non è lì. Se escono tanti libri non significa che siano testi di livello. Questo continuo germogliare di libri, il più delle volte velleitari, a chi giova? Né a colui che s’è speso in tale progetto né a coloro che lo acquistano, sperando di trovare vicende straordinarie – mai narrate e con episodi inediti – dell’eroe che compare sulla copertina. Scrivere sul calcio è molto difficile, e questo lo sa bene anche uno storico di vaglia che si muove per tabulas. M’interessa molto sapere anche come analizzano questo argomento del Calcio un critico letterario, un filosofo o un poeta, e questo perché costoro esporranno con i loro registri e codici che sono anche interiori. In questi casi, ci si aspetta sempre “un tocco di genio”, un affondare nell’essenza delle cose al cospetto della dimensione Tempo; e inoltre, una giocata lirica straordinaria. Un libro sul calcio deve smuovere l’animo, porre domande, creare un dibattito. Una biografia di un campione deve lambire il personaggio, e costui deve essere il reagente per parlare di tante altre cose. I miei libri su Totti, “Il tribuno di Porta Latina” (2002) e “Un mondo senza Totti” (2017), parlano del fuoriclasse ma interpretandolo. Ed è tutto un affresco sull’antica Roma, con parallelismi tra i volti d’allora e gli odierni, e poi con incursioni tra quei lunghi secoli e la contemporaneità, in una giostra per me spettacolare. Intendo dire che i filmati di calcio sono troppo potenti rispetto alla scrittura. E allora si deve cercare di tessere una narrazione al di sopra del “già detto” o del “saputo appena”. Per questo dico che le mie biografie su Totti sono metafisiche.

11. Se ti dico “laziale uguale a fascista e razzista”, tu che rispondi?

PORTELLI
Penso all’episodio di Sinisa Mihailovic che diede del “negro di merda” a Patrick Vieira in un Lazio-Arsenal; e a quell’altro avvenuto sempre sotto Cragnotti, quando un gruppo di sostenitori andò a trovare Lilian Thuram per convincerlo a firmare per la Lazio, sostenendo che la Società non era fascista né razzista. Ovviamente, il campione del mondo francese a Roma non ci venne. Anche Lotito non ha mai affrontato il tema di petto. Ha contenuto le iniziative degli ultrà fascisti sul piano economico, ricevendone una ostilità manifesta, ma per il resto ha preferito il quieto vivere, sminuendo il danno di immagine molto serio che la SS Lazio ne riceve. E ancora adesso, continua ad uscirsene con dei comunicati generici, ogni qual volta l’argomento torna a galla. Una strategia che conduce al triste spettacolo di tifosi in trasferta in Europa che inneggiano a Benito Mussolini. I grandi club non ti invitano agli eventi internazionali, non aderiscono alle tue iniziative, e anche le altre squadre della Polisportiva sono discriminate. A questo proposito, ho un storia troppo bella. Quando stavo svolgendo le ricerche per il documentario sulle Fosse Ardeatine, mi capitò di intervistare Bruno Roscani, storico sindacalista della Cgil, comunista militante. Roscani mi raccontò che, in era fascista, il quartiere di ponte Milvio dove abitava era tutto laziale e anti-fascista in odio al “federale” che la governava, che teneva per la Roma. Oggi la zona di ponte Milvio è colorata di giallorosso, c’è la movida notturna battuta da un sacco di romanisti. Il punto, secondo me, non è tanto che la maggioranza dei laziali sia fascista, cosa ovviamente non vera, ma che questa stessa maggioranza esprima una indifferenza che consente alla minoranza di lasciare il suo segno. Voglio dire che nessuno li mette a tacere. Io ho una grande stima per il mio figlio più piccolo, Matteo, e ti dico perché. Nel 1987, quando frequentava la prima elementare, un giorno tornò a casa e disse: “Papà, ma lo sai che in classe mia quasi nessuno è della Lazio?” Al che io tremo, e sono lì che mi aspetto: “Mo’ dice che è diventato romanista…”. Ma lui mi sorprende: “Ma a due già gli ho fatto cambiare idea!” Ricordo che quando andavo all’Olimpico con Matteo adolescente e si udivano i “boo” della curva indirizzati ai giocatori di colore, lui gridava: “Zitti!!” Ma purtroppo era l’unico. L’avvento del tifo organizzato in quanto tale, con la propensione alla violenza premeditata che lo contraddistingue, la separazione delle tifoserie negli stadi, ha distrutto il piacere di andare a vedere una partita di pallone sedendosi accanto a un sostenitore dell’altra squadra; il che presupponeva una forma di dialogo, dovevi accettare che c’erano altri punti di vista. Ricordo che una volta, sul finire degli anni sessanta, vidi una partita col Lanerossi Vicenza avendo accanto un prete vicentino che smadonnò di brutto a un gol di Luis Vinicio, per me giustamente annullato e per lui del tutto regolare. Questa dimensione contemporanea, assai negativa, del tifo militante ha finito per rinforzare il vittimismo, il sentirsi perseguitati, al punto che perfino gli juventini vi si sono accomodati. Il prete veneto seduto vicino a te, e col quale puoi benevolmente litigare, è scomparso. Questo fatto alimenta le paranoie, il tuo giudizio è confermato e rafforzato da chi ti sta accanto, senza possibilità di dubbio o alternativa.

ACITELLI
Non credo in queste approssimative interpretazioni. Sarebbe come dire che i romanisti sono per lo più ebrei e macellai, come si sentiva dire un tempo. Per molti può anche essere così, ma non è un assoluto. E poi la persona viene prima del tifo. Quando si è allo stadio si vede accanto l’uomo, il ragazzo, e lo si può stringere in un abbraccio senza pensare a quale religione appartiene o al colore della sua pelle. I tifosi della Lazio si portano dietro questa etichetta di “fascista” per il fatto che i figli del Duce erano simpatizzanti biancazzurri. Il mio amico Nello Governato, grande soprattutto come persona, scomparso nel 2019, una volta mi raccontò che Umberto Mannocci, mister della Lazio dal 1964 al 1966, indossava la camicia nera quando la Lazio giocava in casa. E il mister era nato a Livorno! Ma che, forse, si dovrebbe incolpare Mannocci di nostalgia del Ventennio? Ognuno si portava dietro i propri fantasmi e le proprie delusioni. Ma, a partita finita, tutto si sgonfiava e anche la camicia cambiava colore. Non credo che nel tifo laziale si possano usare sempre le due sintesi “razzista” e “fascista”. Il divenire ci fa sempre aggrappare a qualcosa, ad un’età mitica, e se io amo tanto gli anni trenta è perché c’era di mezzo l’adolescenza di mio padre. Quello che oggi manca è il métron, la misura, e va di moda allora l’aggressione verbale, lo strillo in cerca di un applauso planetario: è il postmoderno al sommo delle sue possibilità. Il gridare non discende da Munch, è sintetico e tende all’affermazione individuale, altro che condivisione! Chi strepita e insulta non ha argomenti. Del resto, Contumelia non sunt argumenta.

12. Ma i romanisti delle curve, la fazione più esposta del tifo, sono anch’essi ora dei neofascisti?

PORTELLI
Ricordo che, a un Lazio-Napoli di oltre cinquanta anni fa, andai col registratore nella curva dell’Olimpico per incidere i canti e gli incitamenti dei tanti tifosi partenopei; all’epoca, ancora potevi farlo. In un’altra occasione, qualche anno dopo, vidi i Fedayn del Milan cantare “compagno milanista, fratello rossonero…” sull’aria de “I morti di Reggio Emilia” di Fausto Amodei; un inno comunista ripreso più volte da Milva e Guccini. Non dimenticherò mai un Roma-Lazio che, nell’attesa dell’entrata delle squadre, presentò in Curva Sud un enorme drappo dipinto che ammoniva, rivolto alla Nord: “Roma, guarda il cielo, solo quello è più grande di te!”. E, dall’altra parte, fulminanti i laziali: “Infatti è biancazzurro!” Una mia studentessa mi rivelò che c’erano state inchieste all’interno della tifoseria ultrà romanista per capire quello che era successo. Un’altra versione afferma che i tifosi della Lazio fossero venuti allo stadio con uno striscione arrotolato lasciato in bianco e le bombolette spray pronte all’uso. Per contro, nella narrazione contemporanea, e stiamo già nel 1998, si assiste a dialoghi tra le opposte curve sul tipo (i laziali): “Auschwitz la vostra partita, i forni le vostre case”. E subito la risposta, in un’assurda sintonia: “Toaff boia”. Il che ci fa capire che questa gente non è ignorante come la si dipinge. I romanisti fascisti sapevano bene chi fosse Elio Toaff, lo storico rabbino-capo di Roma scomparso pochi anni or sono. Quando il questore diede l’ordine di controllare l’armamentario dei tifosi, ecco che sbucò fuori in Curva Nord il drappo rosso e blu con la croce di Sant’Andrea della Confederazione Sudista nella guerra di Secessione americana; un vessillo, lo “stainless banner”, che implicitamente inneggia al razzismo e si contrappone alle battaglie per i diritti civili. Le tifoserie forti delle due principali squadre di calcio romane che si scontrano per stabilire chi fra loro sia più antisemita e razzista! Quello è stato il momento in cui mi sono detto: “E vabbé, non abbiamo più nemmeno questo monopolio, noi laziali”.

ACITELLI
Ma quale neofascisti!?… Lo possono essere nell’estetica, ma poi i contenuti “teoretici” dove sono? A interrogarli su quel tempo, mi riesce difficile pensare che sappiano, che so, il nome dei Quadrunviri della Marcia su Roma, o chi fosse il Presidente del Consiglio durante quell’evento. Dunque, si sta parlando del nulla. La verità è che nessuno più lascerebbe il suo cellulare, il suo schermo a casa; nessuno rinuncerebbe all’ormai istituzionalizzata ‘happy hour’ e alle cene a Testaccio. A volte, credo che per riempire pagine si abbia bisogno di creare qualcosa; altrimenti, in assenza di metafore e di dolore, di cosa si parlerebbe? Durante la mia militanza di tifoso, sia in Curva Sud che in Tribuna Monte Mario, la politica era un’eco evanescente. Certamente, lo stadio poteva essere un luogo ideale per scatenare disordini, ma io non ne fui mai spettatore. C’era la paura per come il terrorismo s’era impossessato delle nostre giornate, e qualche pugno chiuso o mano tesa li vidi. In Italia, c’era il partito armato e ogni giorno si sentiva di agguati, uccisioni, e così la gente s’accostava al calcio anche come ad un luogo sicuro. Ecco come funzionò il calcio: una salvezza a portata di mano. Non è questa la sede per affrontare un fenomeno così complesso e tragico come il terrorismo. Se nelle curve c’erano dei militanti non li vidi nei loro tratti eloquenti, né seppi qualcosa; forse mi capitarono vicino ma io non avevo occhi che per il campo: ero un lirico in disparte. Se mi si parla di rivoluzionari, io ci vado cauto; ne ho visti tanti al Liceo inneggiare alla rivoluzione ma poi, una volta fuori, nella vita, si sono placati, sono diventati borghesi ad ampio raggio, ben distesi nel tepore. Mi è rimasto impresso un cartellone pubblicitario riferibile ad un po’ di anni fa: pubblicità d’intimo femminile in cui dei fianchi splendidi erano posti in luce. Lo slogan riferito allo slip così recitava: “Culotte oggi, rivoluzione domani”. Subito mi ripetei: «Sarà un caso, ma sempre domani ci sarà la rivoluzione…». Destra e sinistra sono sempre stati due luoghi distanti da me. Ero poeta già allora e tornavo a casa felice quando avevo fermato nella mente immagini irripetibili, come un vecchio operaio in flanella, sicuramente un reduce da Testaccio e che forse aveva lavorato anche quella domenica mattina; e poi dei tipi smilzi, emaciati, che campavano con poco ed erano da camera ammobiliata come il grande poeta Vincenzo Cardarelli. Ero felicissimo di impossessarmi di simili immagini, potevo pensare a tutto il resto?

13. Ricordi dei giocatori laziali/romanisti idoli dei tifosi non solo per quello che facevano in campo, ma anche per quello che rappresentavano dal punto di vista politico?

PORTELLI
Maurizio Montesi, il centrocampista del dopo-scudetto del ’74, era un simbolo per noi laziali di sinistra. Apparteneva a Lotta Continua. Lasciò il calcio professionistico a venticinque anni e poi è un po’ sparito, ha avuto i suoi guai con la giustizia italiana. Ma proprio in questi giorni sta uscendo un libro di una mia ex allieva, la giornalista Patrizia De Rossi, lazialissima ed esperta di musica pop, che ne ricostruisce la parabola. Un’altra cosa: a noi laziali antifascisti ci divertiva molto il fatto che il centravanti Giordano si chiamasse Bruno. Ad un certo punto, mi pare nell’inverno di una dozzina di anni fa, arrivò dalla Germania quel terzino, Thomas Hitzlsperger, che senza timore dichiarava la sua fede politica di sinistra, ma durò appena sei mesi. Sempre per sprazzi, ricordo una frase detta dal ‘padre spirituale’ ai tempi di Maestrelli, Antonio Lisandrini: “Hanno le loro idee ma sono dei bravi ragazzi”. Credo si riferisse a Mario Frustalupi e Giancarlo Oddi, che per l’appunto veniva dal Tufello, e a qualcun altro, gli elementi di spicco della parte non fascista. Su Oddi posso aggiungere che è più volte passato alle feste dell’Unità. Anche l’ex portiere Fernando Orsi e il difensore Renato Miele dovrebbero avere, per quanto ne so, simpatie meno di destra.

ACITELLI
Ricordo degli snob, anticonformisti rivedibili come Gianfranco Zigoni alla Roma ed Ezio Vendrame al L.R. Vicenza; un tipo estroso quest’ultimo, forse vittima del suo narcisismo. Un po’ eccentrici erano anche Gigi Meroni e Gianluca De Ponti, con la gallina e l’anatra al guinzaglio. In fondo, tutti costoro li si poteva catalogare nella schiera degli individualisti, e il loro messaggio scimmiottava le riviste di moda. Altro affare era quell’affresco formato da Paolo Sollier e Maurizio Montesi. Di questi due calciatori era ben nota l’appartenenza alla sinistra extraparlamentare. Montesi era un puro ed il suo credo lo scontò ad Avellino, quando disse in un’intervista che forse era meglio costruire un ospedale che fare un altro stadio. Il presidente Antonio Sibilia, quello che è rimasto famoso per i tre baci sulla guancia ricevuti in pubblico dal camorrista Raffaele Cutolo, non ebbe parole tenere nei suoi confronti e fu come se dicesse che Montesi era un guerrigliero. Su Sollier, ricordo un episodio: egli è stato per un breve periodo mio allenatore nella nazionale degli scrittori, la “Osvaldo Soriano Football Club”. Una volta – doveva essere il 2003 ed eravamo a Cesenatico – gli raccontai d’un Lazio Perugia 1-0 del 22 febbraio 1976 quando lui, sostituito nel secondo tempo da Sergio Pellizzaro, uscì procedendo verso la Sud, dove allora c’era il sottopassaggio formato da moduli metallici ad incastro che giungevano fin quasi sul terreno di gioco. Io quel giorno ero lì perché un mio amico di fede laziale aveva avuto dal cognato due biglietti per la Curva. Nel mentre Sollier si dirigeva verso gli spogliatoi, dei ragazzi in tuta mimetica facendo il saluto romano lo apostrofarono con un «Sollier boia!». Il punto della Sud era quello solitamente occupato, quando giocava la Roma, dal capo tifoso Dante Ghirighini; quel luogo era contrassegnato dallo striscione “I guerriglieri della Curva Sud”. Lui non rispose a quella provocazione e sparì nel sottopassaggio. Quando gli raccontai l’episodio, a Sollier brillarono gli occhi e mi disse: «Finalmente uno che dice la verità!». Si riferiva al fatto che Guido De Angelis, il giornalista di fede laziale, aveva smentito la storia. Io stavo lì, ad una decina di metri da quei ragazzi: ero inattaccabile!

14. Non molto tempo fa è uscito un rapporto redatto da due ricercatori universitari della Sapienza che ha dipinto un centro città giallorosso e una periferia biancoceleste, mentre la quota numerica concede una superiorità ai romanisti (sono mediamente 3:1 a Roma, 2:1 in regione, 1,7 :1 fuori dal comune di Roma). Tu come la vedi?

PORTELLI
Questa proporzione numerica mi pare attendibile. L’idea di un centro storico romanista contraddice il cliché del laziale abbiente che, allo stato attuale delle cose, dovrebbe votare Partito Democratico. Corrobora, invece, la tesi del laziale lumpen allocato nelle borgate. Ma un altro elemento da tenere in considerazione è il seguente: il senso comune prevede che tu, cittadino romano, sia un tifoso della AS Roma. Se scegli la SS Lazio, sei automaticamente uno che va contro il senso comune, entri a far parte di una minoranza. Che à la stessa cosa che vale per la sinistra, che va contro il senso comune mettendo in discussione lo stato attuale delle cose. In un certo senso, essere laziali a Roma significa compiere un leggero scarto rispetto alla norma.

ACITELLI
Se questi ricercatori universitari mostrano dei dati, ciò vuol dire che hanno studiato perfettamente l’argomento. Dico la verità: quando m’imbatto in diagrammi e numeri non mi sento a mio agio, ed è come se perdessi le mie coordinate emotive. In una società liquida come l’attuale, la possibilità di spostamento di opinioni è enorme. Oggi il tifoso è innanzitutto un consumatore. Il tifoso, non soltanto quello delle curve, guarda il gioco ma contemporaneamente pensa che, terminata la partita, concluso quel divertimento, potrà magari recarsi in agenzia per scommettere sulle partite della sera o del giorno dopo; oppure fare un salto al Roma Point, al Lazio Point, e acquistare le nuove maglie per le Coppe europee col nome dell’idolo impresso sulle spalle. Ma non è finita: questi ragazzi si recheranno poi in un bar, più o meno fricchettone, per l’aperitivo e lì, tra un resoconto amoroso e l’idea d’una nuova macchina, progetteranno l’uscita serale alcolica: e giù ancora a consumare fino a che il sonno non avrà il sopravvento. Ecco, siamo partiti dal tifoso allo stadio e non abbiamo fatto altro che parlare di consumi. C’è posto in tutto questo per riservare un pensiero all’anima? Ma tutti questi ragazzi e uomini, oltre alla loro fede calcistica, ne hanno un’altra? Avranno letto Eros e civiltà e appreso qualcosa sulla società repressiva? Nell’attuale società liquida gli ultimi sono soltanto statistica, non interessano, sono numeri e codici fiscali. Questo è il vero problema da sottolineare. Se il calcio domina le nostre vite con dirette e differite, speciali a tutto campo, chiacchiere social, scommesse ad ogni minuto, parlare di sinistra e di destra, centro o periferia, a che serve?

15. A quali motivi è legato oggi l’imprinting? Tradizioni familiari (anche come reazione), ceto, amici di quartiere, politica, estetica, casualità? O c’è qualcosa d’altro da inserire?

PORTELLI
Una combinazione di tutti questi elementi; ma molto meno la politica di quanto comunemente si pensi. Nel mio caso, l’imprinting ha avuto una natura familiare. Mi viene in mente come funzionavano le cose negli anni settanta: diventavi di Lotta Continua o di Movimento Operaio a seconda di chi era il tuo compagno di banco. Così come diventavi fascista perché tuo padre lo era. O comunista in risposta a tuo padre.

ACITELLI
Al primo punto metterei il clima che si è respirato in famiglia. Quindi, sempre riferendomi ai miei anni giovanili, il “sottocasa” era fondamentale. Proprio lì accadevano i primi fatti importanti. Gli amici di scuola, dell’oratorio o che lambivano un bar, diventavano gli amici del cuore, quelli che non avrei mai dimenticato. Poi accadeva che se questi amici condividevano la stessa mia passione calcistica, il rapporto si rafforzava ulteriormente. Potrei anche parlare della cosiddetta “ribellione generazionale”, cioè di un figlio che sposava i colori opposti a quelli del padre. Così, ad ogni stracittadina, erano divisi, e tra i miei amici ve ne furono diversi che attraversarono un simile affresco. Quando li vedevo insieme, padre e figlio, li sentivo talmente distanti da me che d’improvviso m’appariva mio padre a mezz’aria, in un ovale, e lo baciavo.

16. L’innegabile convergenza dei gruppi ultras delle due società verso la nuova “destra rivoluzionaria”, quella che critica la società post-capitalista e globalista e il business del calcio, secondo te rispecchia i valori odierni? È un fenomeno destinato a durare?

PORTELLI
Intanto, direi che questi neofascisti laziali criticano il capitalismo globalista fino a quando non arriva un ricco business-man americano che si compera la società. Una delle ragioni per cui i laziali militanti ce l’hanno tanto col presidente Lotito è che non tira mai fuori i quattrini. Anche loro sognano di essere comprati da uno sceicco arabo. L’anticapitalismo di questi super supporter è un anticapitalismo a chiacchiere. Sono tutti pronti a vendersi l’anima al diavolo.

ACITELLI
Se questi fenomeni avvengono in uno stadio, cos’è? Gusto dell’apparire? A parole sono tutti contro il neoliberismo, contro il globalismo e la falsa società permissiva. Ma a me, proprio perché poeta, interessa la prassi, altrimenti si rimane nel campo delle opinioni. Il poeta è una persona pratica altroché “testa fra le nuvole”. C’è poi da dire che anche questi gruppi sono composti da persone, e dunque da consumatori, e magari saltano da un modello di scarpe Nike ad un altro, da un Suv tedesco a uno cinese. Io vedo ovunque l’assenza d’un fondamento, e nessuno ha il coraggio, la forza, di rimanere in disparte ad osservare in quale strapiombo stiamo finendo. Sul tifo posso dire di come tutto sia cambiato, come il calcio sia imbrattato di denaro e debiti. Nel derby del 2 novembre 1972, vinto dalla Lazio con un gol di Nanni, io mi trovavo nella cavea della Sud e accanto a me c’erano dei tifosi della Lazio con tanto di bandiere, che esultarono senza alcun timore. Le riflessioni filosofiche del tipo: «Tu sei diverso, quindi vattene», ancora non si ascoltavano. La sopraffazione e l’individualismo sfrenato sono figli dell’Età della Tecnica. Proprio la Téchne è penetrata nelle nostre vite e le ha alterate. Se si viene di continuo avvistati, osservati, seguiti con le telecamere collocate ovunque, accade che la vita non ci appartiene più. Ma chi controlla la Tecnica e fino a quale limite essa può arrivare? La Tecnica non è più un mezzo ma un fine, ha un intestino enorme e digerisce tutto, e tutto crea sempre di nuovo: da qui si deve partire e ragionare seriamente. Il futuro? Mi stupirono le parole del poeta e critico letterario Alfredo Giuliani, che appartenne al “Gruppo 63” e che personalmente conoscevo. Intervistato su “Repubblica”, mi pare un anno prima che morisse, alla domanda del giornalista «come vede i giovani?», egli amaramente rispose: «Non sanno quello che li aspetta». Grande tifoso della Roma, Giuliani già avvistava tutto: il mondo liquido, la commistione tra le tifoserie, il consumismo sfrenato figlio del turbo-capitalismo.