Lo sport non conosce confini. Riesce a entrare dove la vita sociale, per come la intendiamo all’esterno, spesso si arresta. Penetra laddove tutto sembra immobile, portando con sé movimento, regole condivise, dignità. Anche tra le mura che separano i liberi dai reclusi, dove esiste un mondo parallelo fatto di tempi dilatati, sguardi sorvegliati, corpi e anime che si adattano a un ordine diverso, lo sport può diventare voce, contatto, respiro. E così è stato a Roma, nella Casa Circondariale di Rebibbia “Raffaele Cinotti”, dove venerdì 13 giugno 2025 si è svolta la prima edizione de I Giochi della Speranza.
Una manifestazione unica nel suo genere, nata per celebrare il Giubileo degli sportivi, ma soprattutto per portare dentro il carcere un messaggio forte: attraverso lo sport, anche chi ha perso tutto può iniziare a ricostruire. Promossa dalla Fondazione Giovanni Paolo II per lo Sport, dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e dalla rete di magistrati Sport e Legalità, l’iniziativa ha trasformato una giornata qualunque in un evento memorabile, capace di scuotere coscienze e abbattere barriere invisibili.
A sancire l’apertura della giornata, alle ore 8:00, una cerimonia sentita, fatta di parole che hanno scavato in profondità. Daniele Pasquini, presidente della Fondazione, ha rievocato l’ispirazione nata durante le Olimpiadi di Parigi con il ricordo di Padre Henri Didon – l’uomo a cui si deve il motto olimpico Citius, Altius, Fortius – sottolineando la necessità di portare quei valori “là dove si fa più fatica a entrare”.
Al suo fianco, il presidente del CONI Giovanni Malagò ha toccato con mano il senso dell’iniziativa: «Un’idea strepitosa. Qui dentro, rispetto e regole non sono concetti astratti: sono pane quotidiano. E lo sport, in questo contesto, diventa palestra di dignità». Concetto ribadito da Beniamino Quintieri, presidente del Credito Sportivo, che ha posto l’accento sul valore sociale delle infrastrutture sportive anche in ambito carcerario: «Investire nello sport è investire nella società. Anche qui, a Rebibbia».
Dal mondo della giustizia sono arrivate parole lucide e sentite. Il procuratore generale di Perugia Sergio Sottani ha sottolineato come «il rispetto delle regole sportive sia una delle manifestazioni più autentiche della funzione rieducativa della pena». E Fabrizio Basei, gip di Velletri e fondatore della rete “Sport e Legalità”, ha tracciato un orizzonte più ampio: «Costruire un modello replicabile in tutte le carceri italiane. Perché anche dietro le sbarre si può parlare di Costituzione, legalità, speranza».
L’intervento conclusivo del capo del DAP Stefano Carmine De Michele ha riassunto lo spirito dell’intera giornata: «Lo sport livella. E nel gioco condiviso si crea integrazione». Un’idea che si è concretizzata sul campo: squadre miste di detenuti, agenti, magistrati e volontari si sono affrontate in gare di calcio a 5, pallavolo, atletica leggera, ping pong, calcio balilla e scacchi. Niente barriere, solo regole e rispetto.
Ma oltre le medaglie, oltre il sudore e le sfide, resta la voce di chi quel muro lo vive ogni giorno. Manuel, detenuto e rappresentante dei compagni di Rebibbia, ha preso la parola con emozione: «Oggi ci siamo sentiti parte del mondo. Grazie per averci dato la possibilità di vivere una giornata diversa, di sentirci visti. Un saluto e un abbraccio ai miei compagni: oggi abbiamo vinto tutti».
Così Roma, città eterna e crocevia di storie, ha fatto dello sport il suo strumento di redenzione. E Rebibbia, per un giorno, è stata centro olimpico di umanità. I Giochi della Speranza sono un modello concreto di come Roma e sport possano trasformarsi in strumenti di legalità, reinserimento e comunità. Un messaggio forte, che parte dal carcere di Rebibbia per arrivare a tutta la società al di fuori di quei muri e di quelle sbarre.
